Chi è Elena di Troia, la cagna? E per quale ragione ha a che fare intrinsecamente con la filosofia post-umanista?

Cagna, ma perché?

Omero sceglie per Elena questo epiteto in quanto donna capace di mettere a soqquadro l’intero mondo antico. Cagna era l’insulto offerto a la donna per eccellenza.

Una donna che non è nata tale, ma è divenuta tale, infatti, nessuna femmina in quell’epoca poteva permettersi di sovvertire un ordine preciso come quello che era stato pensato dai padri: non poteva azzardarsi ad amare e ad essere amata, perché, se così fosse, se avesse preso parola, se fosse stata vista, sarebbe diventata cagna; questo è quello che fece Elena di Troia: giocò con il logos, ebbe volto e, scardinando le aspettative, è divenuta cagna, ma proprio perché cagna anche donna.  

La cagna, ci dice la tradizione, è una volubile sciantosa, pronta ad irretire con il suo magnetico fascino gli onorevoli spiriti degli uomini che incontrava.

Una bellezza ingannevole la sua, pronta a condurre alla perdizione ogni forma di razionalità, quel concetto che pare da sempre rendere degno di una qual certa superiorità l’umano.

Non un essere umano qualsiasi ma, quell’uomo che ha avuto la potenza del logos nel corso della nostra storia: l’uomo bianco, occidentale, bello, morfologicamente standardizzato e quindi quell’immagine stereotipata – paragonabile all’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci – che ha avuto il potere del dire, come ben evidenzia la filosofa ed accademica Rosi Braidotti nel suo pensiero.  

Quella della cagna è la storia per come ci viene narrata dalla tradizione: una cultura pacifica fatta di dicotomie e di dualismi con lo scopo di semplificare e ridurre la realtà.  

Cagna è una parola che, ancora oggi, fa molta paura al punto che è rischioso indicare un cane femmina con la parola cagna (ve lo dico per esperienza). Perché cagna è l’antieroe, e, in quanto tale, fa orrore.

La cagna mette scompiglio, decostruisce gli stereotipi di ogni mondo: la sua presenza non è atta a ristabilire un ordine precostituito quanto a fondare il dis-ordine. La cagna ci consegna alla tragicità della vita, a spazi e tempi irriconoscibili e per questo spaventosi.

Cagna è sinonimo di metamorfosi, ma anche di liberazione. La cagna ci costringe a varcare percorsi inusitati, gli unici lungo i quali è ancora possibile pensare l’impensato: il futuro.

Unico autore della tradizione che si è speso in una breve difesa di Elena, fu Gorgia da Leontini, un sofista, che nel suo Encomio ad Elena tenta di narrarci un’altra storia, raffigurando una donna che, tradita dal logos, non ha potuto fare altro che seguire l’impeto della sua passione. Proprio Gorgia riconnette il potere del logos a una dimensione affettiva fatta appunto di quore, quasi a volerci suggerire che il darsi nella vita è ante tutto un atto passionale ed affettivo prima che razionale, e di come l’essere umano sia principalmente desiderio.

Ma, per superare le barriere della tradizione, è necessario dare voce ad Elena, conoscerla per quello che davvero lei era, oltre i limiti di un pensiero antropocentrico e per questo, non solo incentrato su una prospettiva umana, ma maschile, normo convenzionale e stereotipata.

Questo tentativo viene sperimentato in un testo di Francesca Petrizzo, Memorie di una cagna, nel quale cerca di ricostruire la storia di Elena secondo un’altra prospettiva: quella di Elena stessa.

Per la prima volta, nella tradizione occidentale, è Elena a prendere parola e, nel suo dire, a disdettare tutto quello che in precedenza credevamo di lei fosse vero.

Questa nuova narrazione non ha valore solo per il testo in sé, un romanzo indubbiamente piacevole, ma per l’operazione metaforicamente filosofica che esso opera: l’importanza di cambiare prospettiva e, in questa azione rivoluzionaria, comprendere che non esiste il mondo in quanto tale, ma esclusivamente la prospettiva attraverso cui lo guardiamo. Riecheggia in questo la lezione che ci ha offerto il filosofo Wittgenstein e cioè che la lente attraverso cui guardiamo la realtà predetermina la realtà stessa.

Si crea così un circolo virtuoso nel quale comprendere che si possono mettere a soqquadro le stanze della normalità per scompaginare quelle stereotipie che trasformano vita e persone in dei monolitici stereotipi.

Cosa ci insegna Elena di Troia,
la cagna?

Che non esiste un unico mondo, ma mille piani di realtà, e che la ragione più forte nel nostro essere nella vita è sempre quella del quore. L’umano, come d’altronde ogni altro essere vivente presente nel pianeta, è ante tutto un essere per il desiderio, perché è a partire da un atto desiderante che si può operare quell’azione generativa e creativa che è l’essere nella vita.

Elena non si è piegata alle logiche della convenienza, della funzionalità, della normalizzazione, della performance, non si è fatta irretire dal ruolo che veniva conferito alla donna in quell’epoca (e in parte anche nella nostra) ma, con un atto desiderante, ha messo in scena il proprio per-Sé, e quindi quel protagonismo che l’ha resa libera.

Ecco che la libertà si configura quindi come possibilità di espressione delle proprie mozioni affettive, desideranti e per questo creative.  

Questo ricollega direttamente la figura di Elena alla filosofia del post-umanismo quale pensiero degli ultimi: di coloro che, nella pornografia della voce e dell’immagine a cui siamo costretti dalla nostra epoca, non vengono ascoltati, non vogliono essere guardati e, in quanto tali, disabilitati ad avere pieno diritto ed influenza nella vita sociale.

Essere donne, omossessuali, transgender, animali non umani, disabili, fisicamente difformi dalla normatività, avere emozioni maggiormente amplificate, essere individui non produttivi nel grande mercato del lavoro a cui è stata ridotta la vita, consegna qualsiasi forma di vivente “alternativa” a una condizione di emarginazione.

Il pensiero post-umanista è un’azione di irriverenza e criticità che tenta di andare oltre gli schemi e che quindi non conforterà, ma che, piuttosto, confonderà.

È una realtà, quella che stiamo vivendo, in costante accelerazione in cui i ritmi imposti ci stanno facendo perdere di vista l’effettiva essenza delle cose. Esperiamo ogni cosa nella perdita: perdita di autenticità, perdita delle relazioni, perdita della cura e della bellezza, perdita dell’altro da sé con conseguente perdita del sé.

Per questo la filosofia deve divenire, in primo luogo, una questione di quore.

Essa non emerge dalle stanze buie e recondite del cogito, bensì da un atto di immersione nel mondo, essa esplode come materia viva, come sentimento di pancia in ogni essere vivente. Non si arriva alla filosofia per un atto di introflessione, quanto perché si è in balia del mondo e dei suoi costanti e mutevoli accadimenti.

Non esiste persona che non si sia imbattuta nella domanda filosofica fondamentale almeno una volta nella propria vita: “chi sono io?”.

È a partire da questa domanda di quore che è possibile intessere una relazione profonda con la realtà.

Meta del post-umanismo è sovvertire ordini e convenzioni, decostruire delle certezze, compiere un atto irriverente. Come quella cagna che, scappando dal vecchio sposo Menelao per inseguire il sogno di Paride, cambiò la storia, fondò una nuova realtà, stravolse le ordinate vite di due mondi.

Ecco perché sarà necessario avere un quore di cagna per riuscire non solo a guardare le cose da una prospettiva differente, ma, anche, a cambiarle.

Condividi: