Fabio Condemi è un giovane regista (classe 1988) che il teatro italiano ha notato per la sua capacità di gestire, artigianalmente (e sapientemente), lo spazio scenico grazie alla costruzione di macchine teatrali, che esaltano e restituiscono il suo pensiero e la sua visione.

Fa pensare ad un giovane artista che prenderà lo spazio dei grandi registi del passato recente, che pensavano al teatro in grande stile, con grandi idee e grandi allestimenti. La scelta dei testi che mette in scena indica un’anima mai scontata e direi, quasi, contro corrente.

Fabio Condemi, la passione per il teatro

Ho conosciuto Condemi qualche anno fa, durante il periodo del Covid, in occasione dell’insegnamento alla Scuola del Piccolo Teatro, diretta da Carmeo Rifici, e mi ha stupito la dolcezza con la quale ha cotruito ogni minimo dettaglio tecnico scenico per lavorare con i/le giovani allievi/e della scuola: ho avuto l’impressione che volesse passare loro la sua passione per l’arte del Teatro.

Lo si trova sempre a fumare dopo ogni replica di un suo lavoro. Di natura schiva, ma sempre sorridente, ha due occhi grandi che ti raccontano molto più di quello che vorrebbe dire di sé, e se gli fai dei complimenti per il suo lavoro si imbarazza molto e ti chiede subito:

“Come stai tu? Cosa stai facendo?”, per non parlare di sè.

Se dovessi raccontare di te in terza persona, come ti racconteresti?
Direi che Fabio Condemi è una persona che non ama parlare di se in terza persona.

Che significa essere un regista?
Interrogare fino allo sfinimento la realtà, metterla in difficoltà, ostacolare la percezione che abbiamo di essa per cercare di comprenderla..

Cosa ti spaventa, di più, del mondo del Teatro?
La solitudine, l’ombra di ogni periodo di prova felice, di ogni prima piena di applausi, di ogni festa pos-spettacolo, di ogni conferenza stampa, di ogni incontro e innamoramento artistico.

Se dirigessi un teatro, che cosa faresti di diverso che ancora non è stato fatto dai tuoi predecessori?
Ma io voglio fare il regista! Mi piace tanto e anche se nella vita sono pigro durante le prove sono instancabile in maniera quasi disperata ma gioiosa. Lo dico perché se avessi la possibilità farei tantissime mie regie quindi meglio non farmi fare il direttore di un teatro, almeno per ora!

Cosa ti fa “perdere la testa” (in positivo e anche negativamente)?
Le donne

Fare teatro oggi

Fare Teatro è fare Politica, oggi?
Per ragionare su questo tema vorrei partire da Calderon di Pier Paolo Pasolini che ho messo in scena di recente. Adriano Sofri disse che il Calderón non è un testo politico, perché è un testo ambiguo. A me pare si possa dire il contrario: Calderón è un testo politico proprio perché gioca sull’ambiguità, la mette in campo come una forma di resistenza al potere che invece si costituisce proprio nel passaggio dall’ambiguità all’assolutezza, cancellando l’ambivalenza, imponendo l’unicità.  la scrittura teatrale di Pasolini coltiva volutamente una dimensione   di ambiguità e di ambivalenza.

Quando Basilio (che incarna il potere)  incontra il sessantottino Enrique (che si ispira proprio ad Adriano Sofri) dice: «La società tecnica fa regredire molto più della società umanistica \ e il cuore umano non conosce più sottigliezze». L’ambiguità è decisamente l’aspetto più intimamente politico di Calderón. Da subito lo speaker si scusa (polemicamente) con gli esperti della nuova epoca che sta cominciando: tecnici, esperti di politica, informati sul presente e sul futuro che saranno forse infastiditi dal linguaggio ambiguo – perché poetico e non ideologico – del testo.

E il testo è una continua messa in scena di crisi, di fratture incolmabili. Il mio modo di lavorare sull’ambiguità del testo è stato dunque quello di rispettarla, di lasciare che interrogasse e scandalizzasse anche me mentre provavo le scene. In questo modo le fratture, le posizioni inconciliabili rimangono tali e sono dei punti di domanda attivi che interrogano gli spettatori. Credo che l’opera sia più complessa di qualsiasi mia possibile interpretazione, per questo ho lasciato aperti i problemi e le questioni che pone anche dal punto di vista della drammaturgia visiva, abbandonando un po’ di coerenza e di rigore perché, come dice lo speaker, «il rigore spesso è una giustificazione all’aridità»!

Che tipo di spettatore sei, quando vai a Teatro?
Un po’ spettatore addormentato alla Flaiano. Mi colpisce sempre come il teatro si trasformi irrimediabilmente nella memoria dello spettatore. 

Cosa abbiamo (fortunatamente) lasciato nel Teatro del passato?
Non saprei rispondere: la storia del teatro che mi interessa è una storia invisibile e senza tempo.

Cosa stiamo abbiamo (purtroppo) perso del Teatro del passato?
Idem come sopra

Sei diventato ciò che sognavi di diventare da bambino?
Forse no ma immagino spesso di incontrare altri me che non hanno fatto teatro. Mi chiedo che strade hanno preso queste altre versioni di Fabio. Forse alcune di loro sono più felici. Io penso invece che ci sono cose più importanti della felicità e spesso sono infelice anche se sono un bravo regista.

Qual è la maggior preoccupazione quando inizi un nuovo lavoro?
Mi piace architettare degli spettacoli complessi e penso spesso alla lezione americana di Calvino sulla molteplicità, parola importante per me. Gli artisti visivi, gli scrittori e i registi teatrali e cinematografici che amo mi hanno trasmesso la curiosità nello sperimentare forme non necessariamente narrative e cronologiche di organizzare i materiali drammaturgici. Penso a Georges Perec, Bruno Munari, Peter Greenaway, Bela Tarr, Christoph Marthaler, Roy Andersson e tantissimi altri.

In questo senso per me è stato fondamentale l’incontro con Fabio Cherstich, che firma la drammaturgia dell’immagine di tutti i miei lavori. Con Cherstich siamo alla continua ricerca del decalage (parola cara a Perec), lo slittamento, il tassello vuoto che consente un gioco e uno scambio continuo tra l’opera e lo sguardo dello spettatore. Hervé Guibert nel suo libro L’immagine fantasma racconta che da piccolo, quando comprava dei libri con in copertina la foto dell’attore che in un film o in uno sceneggiato interpretava il protagonista del romanzo, faceva un atto iconoclasta e liberatorio: strappava la copertina in modo da eliminare il volto dell’attore.

Da quel momento in poi non avrebbe associato al personaggio un volto solo, ma tanti volti, di pagina in pagina, di riga in riga, e a tratti anche il suo stesso volto di lettore. Io vorrei provare a fare lo stesso con le mie trasposizioni teatrali di testi letterari. Non illustrare, ma restituire la molteplicità e la libertà di immaginare che si ha leggendo. Per fare questo bisogna trovare continue strategie di montaggio e smontaggio e questo mi diverte molto quando preparo una regia. Mi piacciono le sfide e trovo stimolante la sensazione di disequilibrio e vertigine che si prova nel passare da un testo letterario a una rappresentazione.

Faccio alcuni esempi: per lo spettacolo Questo è il tempo in cui attendo la grazia, un monologo interpretato da Gabriele Portoghese, ho utilizzato le sceneggiature cinematografiche di Pier Paolo Pasolini per costruire una drammaturgia fatta di immagini evocate, scritte e ecfrasi, in modo da creare un film nella mente di ogni spettatore. La Filosofia nel boudoir del Marchese de Sade (da cui ho tratto un lavoro nel 2020) è un dialogo filosofico pensato più per la lettura che per la rappresentazione. In questo caso volevo creare un gioco costante tra quello che lo spettatore vedeva in scena e quello che poteva solo immaginare. Il lavoro si apre con un prologo tratto dalle Operette morali di Leopardi e prosegue con cinque lezioni immorali e ‘scellerate’ (Sade per Klossowski era il filosofo scellerato per eccellenza).

La prima è una sorta di grammatica sadiana (con un riferimento ai testi di Roland Barthes su de Sade, Fourier e Loyola), la seconda è una lezione di estetica che prende spunto dalle riflessioni di John Berger sul nudo e da un testo di Didi- Huberman, Aprire Venere, nudità, sogno, crudeltà; la terza è un’orgia selvaggia organizzata però come un quartetto rossiniano; la quarta una lezione di storia della rivoluzione francese (il testo nasce proprio in quel periodo); la quinta e ultima lezione porta il titolo di un saggio di Simone de Beauvoir, Dobbiamo bruciare Sade? Il testo di De Sade è crudo e freddo (studia gli esseri umani come un entomologo studierebbe degli insetti) ed è pieno di punti di domanda. La sensazione da restituire allora era proprio quella di un testo ‘uncinato’ e crudele, che interroga chi lo ascolta fino a far collassare schemi mentali e certezze.

Cosa deve succedere affinché un testo (o un autore/trice) che hai letto, e che poi decida di metterlo in scena?
Non adotto un’unica strategia. Il testo al quale scelgo di lavorare (sia esso letterario o teatrale) solitamente guida la messa in scena. Si tratta di cercare di volta in volta il modo di organizzare e restituire in scena la struttura intima e profonda del romanzo o dell’opera teatrale che sto affrontando. Nel caso di Walser e del suo Jakob Von Gunten è proprio la scrittura a passare in modo continuo dalla chiacchiera al monologo all’allucinazione fino a pagine nelle quali si spalancano improvvisamente davanti ai nostri occhi paesaggi sconfinati e inquietanti (le guerre napoleoniche o il deserto come ultimo luogo di fuga per Jakob e il signor Benjamenta) per poi tornare immediatamente e con leggerezza alla chiacchiera. Questo stile crea quella che Roberto Calasso, nel saggio che ho già citato, chiama «l’ironia ininterrotta di Walser».

Mi sembrava una bella sfida cercare di restituire questa particolarità della scrittura di Walser. La drammaturgia sonora è una parte fondamentale nella costruzione nei miei lavori. Non ragiono mai in termini di colonna sonora come strumento per sostenere emotivamente lo spettacolo. Il suono, la musica, i rumori sono parte integrante della drammaturgia e del montaggio delle scene. In Jakob von Gunten il suono era importantissimo per creare l’atmosfera dell’enigmatico Istituto Benjamenta (una scuola in cui i ragazzi imparano a servire e ad annullarsi).

In quel caso mi sono molto ispirato ai film dei Fratelli Quay Institute Benjamenta, or This Dream People Call Human Life e al loro utilizzo della musica e dei paesaggi sonori. In Questo è il tempo in cui attendo la grazia il suono, come il video, è evocativo, frammentario, mentale, e crea degli spazi che sono come scenografie e servono a visualizzare meglio le scene descritte da Gabriele. Nel mio ultimo lavoro Nottuari, tratto dai racconti horror di Thomas Ligotti, ho usato il suono in maniera diversa, cercando di esplorare i concetti di Weird e Eerie descritti da Mark Fisher in un suo bellissimo saggio (Collage, suoni decontestualizzati, ambienti sonori inquietanti, ventriloquismo, fuori sincrono etc.). Questo solo per fare qualche esempio del tipo di pensiero e di lavoro sul suono nei miei spettacoli.

Poi mi piace molto disegnare mentre studio e penso a un nuovo lavoro. Il disegno mi aiuta a guardare le cose, anzi, mi obbliga a guardarle. Il dialogo che si instaura tra me e quello che guardo quando disegno è prezioso perché disegnando ho la sensazione (per me rara) di essere lì in quel momento, di attraversare uno spazio, un volto, un oggetto. Per ogni lavoro accumulo diversi quaderni di disegni. Prima di iniziare le prove, di solito, ne scelgo alcuni, li metto in una cartella e li porto con me in sala prove.

Cosa pensi del “Pubblico”? 
Cerco di fare spesso l’esercizio di guardare una scena che sto costruendo con gli occhi di chi la vedrà per la prima volta. Che cosa vedrà? Che fili si tenderanno tra la sua mente e i segni che sto delineando? Cosa sto dando per scontato? Cosa sto sottolineando troppo? In che modo posso ‘ingannare’ lo spettatore? Giocare con lui? Non ragiono sul pubblico come massa di persone indistinta che riempie il teatro ma sullo sguardo dello spettatore.

È vero che il Teatro lo fanno gli attori, il cinema lo fanno i registi? Qual è la tua opinione?
In teatro si sente più spesso la frase ‘quel regista sa lavorare con gli attori’ mentre nel cinema non ci poniamo la questione. Terence Stamp in Toby Dammitt di Fellin è perfetto perché è perfetta la sequenza del suo viaggio allucinato in Ferrariattraverso una Roma lisergica e spettrale e viceversa (la sequenza è perfetta perche Stamp è bravissimo e magnetico). Quando leggiamo dei versi poetici la forma è inscindibile dal contenuto. Io vorrei che nel teatro che faccio ci fosse questa unione solidissima e inestricabile tra lavoro attoriale e fatto scenico.

Chi è il tuo punto di riferimento, oggi (cinema teatro musica arte vita privata…)?
Le opere letterarie di Mircea Cartarescu, Micha Maisky che suona le suite per violoncello di Bach, Il sorriso di Marta Argherich mentre suona Chopin (ho visto il video dopo aver letto Yoga di Emmanuel Carrere). Se mi sento perso queste cose mi riportano al mistero di quello che facciamo.

Cosa si potrebbe fare, secondo te, per portare più giovani a Teatro?
Personalmente non credo riuscirei a pianificare un lavoro che abbia come scopo quello di ‘portare i giovani a teatro’. Per varie ragioni: La parola giovani non mi dice niente e non ho nessuna intenzione di ‘rivolgermi ai giovani’ come catregoria vaga e generica.

La frase ‘cosa fare per portare giovani a teatro’ presuppone che sia necessariamente un bene per i giovani andare a teatro quando sappiamo perfettamente che spesso non lo è quindi molto meglio per loro non andarci.

Da giovane (parlo degli anni del liceo) volevo vedere, ascoltare, leggere, intrufolarmi proprio dove la mia presenza non era richiesta, proprio negli spettacoli non adatti a me, nei film difficili, nei libri che dovevo nascondere ai miei genitori quindi per me sarebbe un onore fare uno spettacolo vietato ai giovani sperando che qualcuno di loro riesca a intrufolarsi in sala di nascosto. Con la filosofia nel boudoir di de Sade (che era vietato ai minori di 18 anni addirittura) la cosa è successa e mi sono sentito per una sera un ‘precettore   immorale’ come quelli sadiani.

In cosa credi?
Credo molto nel rapporto di amicizia e collaborazione con Fabio Cherstich, che firma la drammaturgia delle immagini di tutti i miei lavori.

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