Camilla Vivian era una mia compagna di scuola, al Liceo Classico Galileo di Firenze: guardate un po’ che visetti assurdi che avevamo, soprattutto io, con quelle orecchie da Dumbo, che per questo mi sono state poi appiccicate al cranio da uno bravo.

Ci siamo un po’ perse, come capita, e poi ritrovate, con lei che aveva tre figlə (e qui lo schwa è veramente d’obbligo) e io una, avuta con una donna. Eravamo nella sua casa di Firenze, non aveva ancora aperto il suo blog Mio figlio in rosa nè scritto il suo primo libro, Mio figlio in rosa, per Manni editore.

Ci raccontammo le nostre vite, la mia di genitrice in famiglia omogenitoriale, e la sua, allora genitrice di una persona transgender, che poi sono diventatə due. Il suo blog, quando nacque nel 2016, era (ed è tutt’ora) l’unico luogo italiano in cui si parlava di affermazione di genere nell’infanzia. Inizia così il percorso di Camilla Vivian come attivista e ricercatrice per il riconoscimento di un mondo molto più bello e vario di quanto si pensi, purtroppo soffocato da pregiudizi e ignoranza.

Adesso è appena uscito per Baldini&Castoldi Gender libera tuttə che naturalmente ho acquistato prima de subbito, come dice la mia amata estetista. Camilla Vivian, infatti, da anni, nella sua lotta quotidiana, ogni giorno scopre a sue spese quanto la società sia impreparata, critica e violenta – nelle scuole, negli ambienti sanitari e nelle famiglie – con chi non si adegua al binarismo uomo/donna: decide di raccontare allora l’esperienza di decine di persone transgender, grandi e piccole, e delle loro famiglie, che condividono con lei l’ansia quotidiana, le lotte contro il tempo, la paura, la mancanza di supporto e le cicatrici su polsi così giovani da spezzare il cuore.

Questo libro, un tomone di 500 pagine, è un dossier fatto di messaggi, email, chat ma anche di cartelle cliniche insensate, definizioni mediche raccapriccianti, studi accademici inutili e test violenti.

Il libro di Camilla Vivian denuncia una questione politica ben chiara in cui le persone transgender di ogni età vengono usate come specchietto per le allodole per nascondere gap istituzionali che vanno ben al di là dell’identità di genere in sé. Trentatré dialoghi inoltre, intimi e autentici, con persone transgender dai 6 ai 60 anni mettono in luce in modo drammatico un problema della contemporaneità che chiede di essere affrontato.

Quella raccontata in questo libro è una battaglia di sopravvivenza, in cui il nemico giudica senza sapere e crea barriere insormontabili che spesso finiscono per proteggere i veri responsabili ma, attraverso la conoscenza di queste storie, si può imparare a capire, e dare il proprio contributo affinchè nessun diritto venga più negato, per costruire un mondo migliore.

Perchè questo libro?
Perchè le storie sono importanti. Le storie offrono l’opportunità di riconoscersi, di non sentirsi solə, di dire “ah ecco allora esistono altre persone come me!”. Allo stesso tempo riportano su un piano di dignitosa verità una realtà, quella delle persone transgender, che quasi sempre viene narrata soltanto attraverso fredde slide proiettate da fintə espertə rigorosamente cisgender durante congressi medici, oppure attraverso la cronaca in cui la persona trans viene regolarmente chiamata col deadname e mal raccontata, oppure attraverso sketch finto-comici che altro non fanno che  nutrire stigma e violenza.

Cosa è cambiato, dentro di te, scrivendolo?
In realtà scrivendolo non mi è cambiato nulla. Le storie che racconto sono le mie conversazioni quotidiane. Queste persone sono le persone con cui combatto, ma anche quelle con cui parlo delle vacanze, dei viaggi, della politica, deə figlə, di cani, ecc. Certo avendo riportato tutto in un libro, oggi c’è in me la speranza che l’amore immenso, la stima, il rispetto che provo per tuttə questə amicə possa arrivare anche a tuttə coloro che lo leggeranno. Anche se la speranza a me fa pure un po’ paura, perché aumenta le aspettative e quindi di conseguenza anche la delusione.

A quale passaggio di queste 500 pagine che grondano vita ed emozioni, dolore e rivoluzione, commozione e gioia, ribellione e tenerezza, paura e sorpresa, sei più affezionata? Non saprei proprio scegliere. Io sono innamorata di tutto questo libro. Mi piace molto la naturalezza deə bambinə; mi ferisce a morte la ragazza del Bahrain che dice alla mia amica Isabella  “pregate per me ché nel mio paese le persone come noi le uccidono!”, ma non posso pensare a un passaggio perché sono vite vissute, sofferte, conquistate. Sono amore. E come scrivo nel libro, citando Andrew Solomon “accetto solo modelli di amore additivi”. Non si può scegliere tra tanti amori.

Dall’esperienza in solitudine, a Firenze, con una figlia assegnata maschio alla nascita, al progetto “Mio figlio in rosa”, fino al figlio assegnato femmina alla nascita, fratello della prima, e al secondo libro con una grande casa editrice che cosa significa vivere una vita così straordinaria, fuori dall’ordinario, e come si resta in equilibrio in un mondo pensato per i “referent man”?
Sai, ogni persona vive la propria quotidianità e per me quanto io vivo è la cosa più naturale che ci possa essere. Si, le nostre vite possono essere condizionate dal doversi ricordare di comprare bloccanti e ormoni, possono essere condizionate dal non avere documenti conformi, non ancora almeno, ma per il resto tuttə viviamo un momento storico drammatico. Tuttə i nostrə figlə, cisgender e transgender, hanno un futuro incerto che preoccupa noi genitori e genitrici. Noi famiglie di giovani persone trans abbiamo l’onere, ma anche la fortuna di non poter dar nulla per scontato, di dover pensare due volte. È faticoso, ma questo ti obbliga a vivere davvero, a non rimandare e rimandarti, a guardare con occhi trasparenti. Una persona cisgender, con un percorso di vita facilitato da tutti i privilegi che socialmente ha, può fingere più facilmente, può agire in automatico perchè non trova ostacoli sul suo cammino, ma non vive in una società migliore di quella in cui vivo io. Per questo io dico sempre che i cambiamenti sono necessari per tuttə.

Il libro sta riscuotendo un grande successo di pubblico: quanto conta per Camilla Vivian fare informazione su un tema scomodo e ignorato, sensibilizzare la cittadinanza, le istituzioni, la politica, l’immaginario e, soprattutto, dialogare con equipe mediche, cliniche, ospedali, ancora molto indietro sulle reali necessità delle persone transgender e delle loro famiglie?
Fare informazione per me è tutto. Negli anni ho capito che il problema non è solo la non conoscenza, ma c’è una volontà politica ben precisa che mira a mantenere uno status quo talmente sfinente che la gente tutta non ha la forza di ribellarsi. Le persone transgender e tutta quella che viene chiamata  “questione gender”, viene usata come specchietto per le allodole al fine di distrarre dai problemi reali del nostro paese, per privare le persone tutte delle libertà e dei diritti di base.

È un piano ben pensato: prima si evita di fare formazione e di educare la società poi si spaccia per vera qualunque cavolata giocando proprio sui punti “cari” alla popolazione media: il concetto di famiglia, la tradizione, il “secondo/contro natura”.  Ecco perchè si tende a parlare sempre attraverso un certo tipo di narrativa. Me ne accorgo anche dalla differenza che sto riscontrando tra il primo libro, ‘Mio figlio in rosa’, e questo secondo. Il primo ha riscosso molto più interesse nei media, perché si vuole raccontare solo la storiella della “mamma coraggio”, del “bimbo principessa” che fa tenerezza, delle difficoltà familiari, del “caso”. Questo secondo libro invece, che sta avendo molto più successo di pubblico, è stato finora totalmente ignorato da giornalisti e giornaliste perché la verità, le storie, la critica sociale, la denuncia non interessano. Non si racconta più la verità. Si cercano solo i like, le condivisioni, gli articoli clickbait.  Se poi andiamo tuttə alla deriva chi se ne importa. Questo rispecchia la maniera generalizzata di non fare informazione e di conseguenza il bisogno che c’è di farne per davvero.

Camilla Vivian racconta cose che nessuno sapeva: temi qualche conseguenza?
Onestamente no. Forse anche perchè vivendo in un altro paese, so che la mia famiglia è protetta. Se vivessi in Italia, forse non mi sentirei così tranquilla. Ma del resto nessuna guerra si è mai combattuta senza vittime. Inoltre non è vero purtroppo che racconto cose che non si sanno. Se le so io vuol dire che le sanno tuttǝ: attivistǝ, associazioni, istituzioni. Io stessa ho spesso informato persone che ritenevo influenti su quanto succede, per scoprire che parlavo da sola. Raramente ho ricevuto risposta. A volte sono stata anche bloccata come contatto. Chi lo ha fatto é spesso anche protagonista assolutǝ della scena dell’attivismo transgender. Un controsenso che mi fa sempre una rabbia incredibile. Non so se sia diplomazia o opportunismo ma credo che questo sia parte del problema.

Quanto ancora c’è da fare?
Tutto. Ma se si capisse che davvero ognunə di noi può fare la differenza senza aspettare che siano altre persone ad agire si potrebbe davvero cambiare questa società abbastanza rapidamente.

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