Se i social network cominciano a essere invasi da fantasmi, ovvero persone decedute il cui profilo Facebook o Instagram continua a ricordarci il compleanno, mostrarci foto o post in cui possiamo rileggere le conversazioni avute con il defunto, con i griefbot (robot del lutto) abbiamo fatto un passo ulteriore nell’elaborazione del lutto. Di che cosa si tratta? Di cloni virtuali del caro estinto con cui possiamo interagire grazie ai nostri strumenti digitali.

La spasmodica ricerca dell’immortalità

Nel mio articolo sul Mind uploading ho già trattato delle costante ricerca dell’immortalità da parte dell’essere umano. Ma qui, forse, ci spingiamo oltre: non solo il bisogno di prolungare la vita cercando di raggiungere un’immortalità digitale, ma anche il tentativo di far ritornare in vita dopo la morte grazie all’intelligenza artificiale. Come? Attraverso una banca dati che ci sopravvive e grazie alla quale possiamo avere un’interazione postuma con il defunto. Il caso più famoso è Luka, la copia digitale di Roman Mazurenko, un ragazzo bielorusso morto qualche anno fa che, grazie a un programma che attinge al vasto archivio di messaggi social da lui lasciati, continua a chattare attivamente con i suoi amici, scrivendo e comunicando con il suo specifico stile comunicativo e dunque sembrando veramente lui. 

Pericoli del griefbot per la psiche

Abbiamo sempre avuto svariati modi per tentare di elaborare il lutto dei nostri cari: parlare con loro come se fossero ancora insieme a noi, cercare di dimenticarli buttando tutto quello che ce li ricorda, iniziare una terapia con uno psicologo, celebrarli con messe, cerimonie religiose o funzioni laiche… insomma, ognuno cerca di affrontare la morte in un suo modo specifico.
E allora, che cosa cambia nell’era digitale? Il fatto che il defunto sembri ancora vivo.
Il suo rispondere autonomamente alle nostre domande. Il fatto che ci sia una vera interazione tra me e la persona morta, infatti, può essere d’intralcio alla mia elaborazione del lutto, perché di fatto nega l’accaduto, nega la morte. Il rischio è che la persona in vita non riesca a distaccarsi dalla persona morta e dal dolore che prova per questa: rischia di non riuscire più a codificare una sua nuova identità. Se il bisogno è quello di rimanere attaccati al passato e alla visione della nostra vita con la persona deceduta, la necessità, però, è quella di ricrearsene una nuova senza di lei, perché di fatto non c’è più. Non solo, l’uso eccessivo del griefbot e di app simili può aggravare lo stato di isolamento e solitudine che si vive quando si affronta un lutto, e il confine tra realtà fisica e virtuale potrebbe diventare molto labile.

Benefici del griefbot per la psiche

Eppure, molti psicologi, sostengono che i vantaggi dei griefbot possono essere superiori agli svantaggi. La loro funzione consolatoria nella fase iniziale del lutto, infatti, può essere di grande aiuto, anche se la persona rimane consapevole che si sta interfacciando con una personalità virtuale. Il filosofo Evan Selinger, per esempio, sostiene il parallelismo tra il griefbot e la tecnica della sedia vuota, paragonando il robot del lutto a una versione digitale della tecnica psicoterapeutica. Se la sedia vuota prevede un dialogo irreale tra il paziente e il suo interlocutore immaginario, il griefbot permette invece un vero confronto con il defunto, che scrive e parla come la sua precedente copia reale. I risvolti psicologici, tuttavia, come si può immaginare, sono davvero complessi, così come complessa è la struttura di questi robot, che possono persino rievocare liti, discussioni o episodi traumatici avuti con la persona che sta elaborando il lutto. Possono addirittura emergere segreti, pensieri e azioni che la persona defunta aveva nascosto o omesso alla famiglia o agli amici, cosa che potrebbe cambiare radicalmente l’immagine che abbiamo di lei.

La sopravvivenza digitale e l’accettazione della morte

Secondo recenti studi sociologici, i social network come Facebook forniscono un ottimo sostegno, creando, insieme alla comunità di riferimento, un rituale collettivo (simile al funerale) che fa da antidoto a quell’isolamento autistico percepito da chi ha subito il lutto. Tuttavia, a questo movimento a ritroso che commemora il passato e la vita del defunto, deve seguire un movimento in avanti, in cui la persona ancora in vita rielabora la propria identità e si crea un nuovo mondo senza la persona a cui ha voluto bene, come da sempre ci insegna il ciclo della vita. Nel web, il rischio è quello di un ripiegamento sul passato, di una non accettazione del tempo e della vita che va avanti, di un’eterna presenza di chi, purtroppo, non c’è più.

Se da una parte la tecnologia ci aiuta a conservare la memoria di chi abbiamo amato, dall’altra, spesso, rende quasi impossibile il superamento del passato, riproponendo un eterno tempo presente che nega la morte, il più grande tabù dei nostri giorni.
Chatbot, ologrammi, copie digitali e profili social possono aiutarci nella prima fase del lutto, ma la nostra vita è indissolubilmente legata alla morte e tutto ciò che facciamo è scandito inevitabilmente da un inizio e da una fine. Forse bisognerebbe ricordarlo sempre, come il fatto che prima di essere un insieme di dati, siamo esseri umani con una data di scadenza biologica. Per saperne di più, vi consiglio due libri del filosofo e tanatologo Davide Sisto, La morte si fa social (Bollati Boringhieri, 2018) e Ricordati di me (Bollati Boringhieri, 2020).

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