Uno degli argomenti che maggiormente ha tenuto banco, e che ciclicamente la stampa nazionale ci propina, è quello dei presunti inspiegabili attacchi di cani che causano gravi lesioni, in alcuni casi anche la morte, di esseri umani, in particolare modo di anziani e bambini.

Il cane, dall’essere migliore amico dell’uomo, diventa un crudele e spietato animale, catturato dalla sua istintualità e incapace di formulare qualsiasi forma di ragionamento o idea. Il cane, crollando nella sua bestialità, diviene un pericolo per persone, bambini, insomma per la società intera.

Ma ci pare sensata questa prospettiva?

Le adozioni inconsapevoli

Si cerca sempre un motivo al fatto che un cane di famiglia possa scagliarsi contro un membro di essa, lo si giudica inaccettabile. Un cane deve – nella prospettiva dell’essere umano – per antonomasia essere mansueto, non creare problemi ed essere massimamente fedele al padrone (perché questa è la parola che, ancora oggi, nonostante una marea di informazioni e divulgazioni scientifiche, utilizziamo per definire la nostra relazione con lui).

Per adottare un cane bisogna ante tutto sapere una cosa: il cane non esiste. Esistono prima le razze che sono il prodotto delle manipolazioni genetiche operate dall’uomo per selezionare alcune specifiche caratteristiche. A seconda della razza il cane ha delle specifiche propensioni a fare o meno certe azioni, a provare dei desideri, ad avere delle emozioni. La razza, quindi, determina aprioristicamente chi sarà quell’individuo, cosa potrà fare e cosa desidererà compiere. Dopo la razza vi è da considerare il soggetto, la persona cane e cosa quella specifica persona desideri. Non si può pensare che al cane basti l’amore, il sentimento affettivo arriverà in un secondo momento: in ogni relazione la prima fase corrisponde all’incontro; quindi, sforziamoci affinché avvenga un incontro “giusto”, cerchiamo di imbatterci in una persona cane prossima a noi e che possa inserirsi nel contesto di vita che gli andremo a proporre.

Il cane da appartamento

Ritornando a questo discorso sulle razze i cani da pastore, per esempio, il Ciarplanina o il Bovaro o il Maremmano, sono cani pensati e strutturati per vivere sul cucuzzolo della montagna per difendere le greggi dai selvatici. Oggi tutti i pastori denunciano la presenza di lupi che sbranano le greggi, eppure nessun cane da pastore è insediato nelle aree di sua competenza. Dove sono i Maremmani? Che fine hanno fatto?

Ah ecco, hanno scelto anche loro la città!

Oggi abbiamo appartamenti in pieno centro con due stanze microscopiche e un Maremmano che “vive in famiglia”.

Il Maremmano è diventato un cane da appartamento, o meglio lo abbiamo obbligato a tale vita. Il tutto perché è bianco, spumoso, ha occhi grandi e accende in noi il desiderio della cura, di prendersene cura e di essere rincuorati da lui… ma a lui l’appartamento fa schifo e le nostre coccole – propriamente dette manipolazioni – danno fastidio. Lui in appartamento ci muore, lui in appartamento va via di testa; ciò perché i suoi geni parlano di spazi sterminati, del belare delle sue pecore, del rapporto di famigliarità che con esse crea e di diffidenza nei confronti di chiunque altro, pastore compreso.  

Il desiderio mortificato

Ecco che in questa condizione, che non è solo di privazione di libertà perché si tiene a guinzaglio un cane, ma di sopruso radicale, ogni persona potrebbe cadere nella propria istintualità omicida, comprendendo che, piuttosto di quella vita, si preferisce la morte. E la scelta radicale di uccidere o di uccidersi non è così differente. È il risultato della rabbia e della non curanza di ciò che si è, è il totale abbandono di sé stessi a un destino che ha il sapore di nulla. Ho capito questo senso di costrizione dopo due mesi di ospedale in cui potevo muovermi solo dentro la mia stanza, in cui potevo cibarmi solo del cibo che mi davano, in cui dovevo aspettare che loro decidessero di portarmi a fare i miei bisogni; l’ho capito quando hanno preso a tremarmi le mani e la mente era sempre meno lucida, sono stata anche io mortificata, anche a me era stata sottratta la mia identità e, l’unica cosa che potevo fare, era aspettare. Aspettare che qualcuno aprisse la gabbia.

Le nostre città sono piene di cani in gabbia, delle gabbie dorate, di design, con cucce morbide e confortevoli, cuscini che soffocano ogni forma di identità del cane.

Levis Strauss disse che l’uomo ha bisogno di dividere la realtà in dicotomie, in opposti, perché deve semplificarla. Sorrentino ci insegna che l’ultima cosa che impariamo a fare è vedere. Eppure, la vista è l’organo percettivo più sviluppato nell’essere umano, nonostante ciò semplifichiamo, concettualizziamo; non sentiamo ma pensiamo mentre il mondo, le cose, le persone ci sfuggono. Mentre ci perdiamo il cane.

Un libro per capire  

Credo di non aver mai imparato a vivere, ma credo anche che la vita mi abbia insegnato a vedere. Vedere il tragico che si cela dietro quella patina di superficiale e volgare bellezza di cui è intrisa la nostra epoca.

A me il mondo non piace. Ma mi piacciono i cani e molto. Vederli sminuiti, dimensionati in luoghi comuni, sbeffeggiati dalle televisioni mi fa venire i brividi e smuove in me il bisogno e la necessità di fare qualcosa.

Da poco è stato pubblicato un libro a cura del professor Roberto Bonanni dal titolo Cani, umani e lupi: dagli individui alle relazioni sociali ed ecologiche. Il collettaneo è la raccolta degli atti del convegno tenutosi a Roma il 27-28 aprile 2019. In esso sono raccolti differenti punti di vista, di tanti relatori che si sono sforzati di vedere il cane, di conoscerlo per quello che effettivamente è: un animale. Un animale con caratteristiche proprie, non necessariamente dipendenti dall’essere umano e, sono convinta, vi stupirà sapere che questo testo è unico nel suo genere. Sì, perché con i cani viviamo da sempre, ma sono tra le specie meno studiate in termini scientifici dall’uomo. Questo testo sicuramente colma una enorme lacuna e spero che nel leggerlo le persone possano finalmente vedere il cane e non la proiezione di loro stesse.

Essere custodi

Modificare il linguaggio è sicuramente uno dei modi per iniziare a cambiare il mondo e le sue prospettive. Come dice uno dei miei filosofi del cuore il linguaggio è il limite del nostro mondo vi spiego quindi perché penso che le parole padrone e proprietario debbano essere completamente abolite: perché il cane è un essere vivente e noi, per quanto ci sforziamo, non possiamo possedere la vita di nessuno, come non possiamo far rimanere qualcuno che ha deciso di andarsene: se ne andrà, qualunque cosa faremo.

I cani che vivono con l’uomo – e leggendo il libro verrete a scoprire che sono solo una piccola percentuale dei cani effettivamente esistenti – per me sono in qualche modo nostri custodi e noi lo siamo di loro. La relazione con il cane probabilmente sarà sempre in parte asimmetrica, ma può divenire per entrambi armoniosa: una piccola grande storia dell’amore che siamo in grado di dare e di ricevere…

Asimmetrica perché? Perché sarò io umano che guiderò la macchina, che deciderò cosa fare, quando mangiare, con chi stare, tuttavia, tu, cane, potrai sapere tutto di me solo da una annusata. Asimmetrica perché nel mio non sapere niente deciderò tutto e nel tuo sapere tutto non potrai decidere niente: per questo dovremo costudirci l’un l’altro. Essere pazienti. Darci tempo. Custodi di un percorso, di segreti, di spazi, di sorrisi, di pianti. Custodi di uno sguardo che non è lì solo per guardare, ma per vedere. Per imparare l’ultima cosa che si impara nella vita: vedere.

E così accadrà: Tu cane sarai il mio custode e io umano sarò il tuo.

Condividi: