“Gli parlai della bellezza degli aeroplani che si innalzano nella notte. – E forse ancor più di quelli che scendono, – mi disse”.

Proust non aggiunge altro, ci lascia in sospeso ad assaporare queste due immagini nelle quali si sfogliano a vicenda altrove e meraviglia, luci e oscurità, silenzio e rumore, partenza e arrivo. Ognuno traccerà la sua conclusione estetica ed emotiva, al cospetto di un notturno in forma di decollo e di atterraggio.

Chi si addentri nella selva sterminata e luminosa de La Recherche s’imbatte in un mosaico di aperture sul viaggio, a volte delle istantanee, un’osservazione folgorante en passant, altre delle lunghe scorribande analitiche sul senso dello spostamento, sul valore dell’intervallo temporale e spaziale costituito da un nomadismo che è fisico ma ancora più interiore. Un affare di anima. E così l’opera di un inquieto è anche un’anatomia dell’inquietudine nella sua forma del viaggiare. 

La luce di questo immenso parigino che restava come ovattato in pochi spazi (la sua camera, qualche salotto, alcuni luoghi abitudinari) a curare con la scrittura l’insieme delle sue patologie da grande malato, si spense nel 1922.

Da allora, niente è uguale nella letteratura – la sua lezione è un caposaldo con  cui tutti devono fare i conti, come accade con ben pochi altri – Kafka, Beckett o Borges. Ma il centenario della sua morte è passato inosservato in Italia, non ricordo un giornale tra i principali che ne abbia scritto, e figuriamo le televisioni.

È l’occasione buona per inebriarsi nel mare magnum di Alla ricerca del tempo perduto , o anche degli scritti che non sono mai minori, come capita solo ai classici – Sulla lettura, I piaceri e i giorni.

Tra queste pagine ognuno navigherà a suo piacimento, e il viaggiatore potrà soffermarsi sui tanti frammenti distillati da Proust per una teoria del viaggio alla quale non è ancora stato dedicato un verso studio, pur essendo il viaggio, il solo pensiero del viaggio, l’indispensabile contrappeso mentale alla sua camera da malato, dove si isolò a 37 anni.

Così La Recherche è uno zibaldone di punti fermi in ordine sparso, una costante variazione sul tema. Il viaggio come noia, eppure, per magia, esaltante per una sua bellezza complessiva.

Il viaggio che comincia, e a volte addirittura lì si esaurisce, al solo “pensare a Firenze, a Venezia”, e ad altri luoghi il cui nome – già il nome da solo – costituisce l’anticamera delle delizie del nomade, anche di quello che resta poi a casa, perché il nome è già richiamo, desiderio – come “Firenze o Venezia” lo sono “del sole, dei gigli, del Palazzo Ducale e di Santa Maria del Fiore”

Il viaggio il cui piacere “non consiste nel poter scendere durante il tragitto e nel fermarsi quando si è stanchi; sta nel rendere la differenza fra la partenza e l’arrivo non già la più inavvertita ma la più profonda possibile, nel farla sentire nella sua totalità, intatta, qual era in noi quando la nostra immaginazione ci portava dal luogo dove si viveva fin nel cuore d’un luogo desiderato, in un balzo che ci sembrava miracoloso più per il fatto di valicare una distanza per quello di unire due individualità distinte della terra, di condurci da un nome a un altro nome; un balzo che viene schematizzato (meglio che da una passeggiata, in cui, dato che si scende dove si vuole, non esiste più arrivo) dall’operazione misteriosa che si effettua in quei luoghi speciali, le stazioni, i quali non fanno parte per dir così della città ma contengono l’essenza della sua personalità, allo stesso modo che ne portano il nome su un cartello segnaletico.”

Il viaggio che comincia in “quei luoghi meravigliosi che sono le stazioni, da cui si parte per una destinazione lontana” e che “sono anche luoghi tragici, perché, se vi si compie il miracolo grazie al quale i paesi che ancora non esistevano se non nel nostro pensiero saranno quelli in mezzo ai quali vivremo, per la stessa ragione bisognava rinunciare, uscendo dalla sala d’aspetto, a ritrovare soltanto la stanza familiare dove si era appena un attimo prima, bisogna lasciare ogni speranza di tornare a dormire a casa nostra, una volta che ci sia risolto a penetrare nell’antro appestato attraverso cui si accede al mistero, in una del grandi officine vetrate, come quella della stazione di Saint-Lazare dove andai a prendere il treno di Balbec, e che spiegava sopra la città sventrata uno di quegli immensi cieli crudi e gravidi di accumulate minacce di dramma, simili a certi cieli, d’una modernità quasi parigina, del Mantegna o del Veronese, e sotto il quale poteva compiersi solo qualche evento terribile e solenne come una partenza in treno o l’erezione della Croce.”

Il viaggio che induce a vagheggiamenti di “quando le distanze terrestri non erano ancora, come oggi, abbreviate da gran tempo dalla velocità” e “il fischio di un treno che passasse a due chilometri di distanza aveva la stessa bellezza che adesso, per qualche tempo ancora, ci commuove nel ronzio di un aeroplano a duemila metri, all’idea che le distanze percorse in quel viaggio verticale sono le stesse che sul suolo, e che in quella direzione, in cui le misure ci sembrano diverse perché l’accesso ce ne sembra precluso, un aeroplano che voli all’altezza di duemila metri non è più lontano di un treno che passi a due chilometri di distanza, anzi è più vicino, l’identico tragitto venendo effettuato in un mezzo più puro, senza separazione tra il viaggiatore e il suo punto di partenza: come sul mare o nella pianura, in una giornata tranquilla, il moto d’una nave già lontana o un soffio di vento rigano l’oceano delle onde o del grano”. Oppure, infine, “il vero viaggio di scoperta”, che “non consiste nel trovare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”

Mi fermo qui, ma nella lunga lettura de La Recherche, il viaggiare – in atto o come progetto, come idea o nostalgia – appare di continuo e inaspettatamente, in forma di treni, aerei o automobili, di un tessuto di Fortuny, di una tazza di tè, pensieri, feticci o fantasmi. 

Alla ricerca del tempo perduto è dunque anche un libro di viaggio, anche se solo l’andare a Venezia ha indotto Proust a un resoconto completo – e ce n’è di che, con quella camera ottica e mnemonica dovuta alla laguna e al suo silenzio.

Poi è tutto mobile, perché l’essenza del viaggio non è solo lo spostarsi nel tempo e nello spazio, e non è nemmeno il peregrinare nella nostra immaginazione e tra i nostri desideri. Siamo noi il paese da visitare e viaggio è anche l’andirivieni dei ricordi e delle emozioni, che transitano nei nostri neuroni, compiendo in noi ogni genere di tappe e di esplorazioni. E ci scoprono.   

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