La pianta del minari – tipica della Corea e dell’Asia – ha attraversato secoli. Regni caduti e cambiamenti climatici, guerre e carestie. Lei, aristocratica sempreverde, più resistente di una quercia. Pullulante e brillante sulle rive di un torrente, fitta testimone di un tempo che scorre inesorabile. Ed è proprio sul tempo che Lee Isaac Chung costruisce il suo strabiliante film, utilizzando per il metaforico titolo la forza perpetua di questa piccola, grande pianticella. Premio della Giuria al Sundance 2020, un Golden Globe (Miglior Film Straniero) e ben sei Noms agli Academy Awards, tra cui Miglior Film e Miglior Regia. Minari, potremmo dire, è la sostanza dietro l’apparenza cinematografica; una storia famigliare eppure universale, la traslitterazione dell’American Dream che si infrange – anzi, arde – per poi venir nuovamente costruito e immaginato al servizio di una nuova speranza.

La sceneggiatura è marmorea ma lieve, gli interpreti sono incredibili (Steve Yeun, Han Ye-ri, Will Patton e l’irresistibile rivelazione Alan Kim) e la macchina editoriale è di quelle che garantiscono qualità: la Plan B di Brad Pitt a produrre e la A24 a distribuire negli USA. In Italia lo vediamo a partire dal 26 aprile grazie ad Academy Two, la stessa che ci ha portato un altro capolavoro, Parasite (e dal 5 maggio anche su Sky Cinema).

Un quadro realista di ricercata identità

Ma iniziamo dalla storia: sono gli Anni Ottanta, quando la famiglia coreana Yi si trasferisce dalla California all’Arkansas. Il motivo? Papà Jacob è stanco di selezionare pulcini. Vorrebbe indipendenza, vorrebbe una fattoria tutta sua. Un campo d’arare per garantire prosperità, certezza e forse felicità ai suoi cari. Ma, ogni migrazione, porta con sé rinunce e difficoltà, incubi e solitudine. Sua moglie, Han, è preoccupata, la tenuta famigliare è in precarie condizioni. Anche perché… beh, perché il piccolo David soffre di un soffio al cuore, e intanto dalla Corea è arrivata nonna Yoon, dai modi alquanto particolari.

Ecco, l’insieme che ne fa Lee Isaac Chung, che l’infanzia – guarda un po’ – l’ha trascorsa in una fattoria a Lincoln nel cuore dell’Arkansas, è un quadro realista di ricercata identità. C’è la voglia forte di superare i problemi, di sacrificarsi per immaginare un sogno ignoto che di certo non dimentica il ricordo. Funziona tutto in Minari. Non poteva non funzionare quando c’è l’empatia protagonista. Un’empatia scevra da ogni artifizio, bensì carica di dolcezza, di linearità (sonora e visiva) e di cieli azzurri, riflessi in quell’acqua impossibile da trovare, ma essenziale per la terra e per la vita. Perché è con l’acqua che cresce la pianta aromatica del minari, ed è grazie all’acqua che si spengono i fuochi, anche quelli più cattivi. Cosa resta? La cenere, a fecondare la speranza dietro un cambiamento tanto atteso, e rappresentato drammaticamente (e naturalmente) dall’abbraccio di nonna Yoon al nipotino David.

È un film bellissimo Minari; un film che fa del cambiamento la metafora principale, e fa della bellezza uno strumento di racconto. È la storia che indirizza la messa in scena, è sempre la sceneggiatura che suggerisce al regista come inquadrare e dosare i suoi magnifici interpreti. C’è il sentimento e c’è la poesia. Una metrica cinematografica che non può non lasciare di stucco, folgorati e spaesati da questo mondo lontano e sperduto, messo in equilibrio tra i moti ondosi dell’anima e l’ineluttabilità della natura. Quella natura che detta tempi e leggi, elemento super-partes che racchiude misteri e certezze. Così, dopo aver visto Minari, capiamo un pochino meglio noi stessi, i nostri perché e le nostre paure. Chiudiamo gli occhi e, per un attimo, sembra che tutto vada per il verso giusto. Una sensazione cristallina e leggiadra, mentre sotto ci accompagnano i violini e gli archi di Emile Mosseri.

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