Oggi voglio parlarvi della fiaba di Rosaspina, ai più conosciuta come la Bella addormentata nel Bosco. Ci troviamo di fronte alla storia dell’amore romantico per eccellenza: una bella principessa in preda a un incantesimo che attende l’arrivo di un principe per poter essere liberata. Se dovessi domandare a qualcuno la definizione di amore romantico, immagino che il più delle volte mi risponderebbe con la solita associazione amore romantico = amore passionale. Una passione così forte da rendere le sue povere vittime degli schiavi. Un demone che colpisce con una freccia il cuore di coloro che sceglie di legare per l’eternità. Dunque, amore come schiavitù, non come libertà. Amore come prigione, non come casa. Forse è per questa visione che molte persone hanno timore di provarlo, terrorizzate di perdere la loro indipendenza.

Ma chi ha detto che la solitudine implichi una maggiore libertà? La libertà, infatti, non è un oggetto, non si guadagna in sacchi, ma in relazioni. Non a caso, in latino la parola libero ha la stessa radice di figlio. Mi piace pensare questa coincidenza come celante una profonda verità: solo chi si riconosce figlio, chi dunque accetta di esistere grazie a una relazione di amore, scopre di essere libero. La libertà non può dunque prescindere dall’amore, in questo caso quello originario della nostra vita che lega un genitore a un figlio. Il contrario dell’amore non è dunque la libertà, semmai il possesso. La prigione è creata da relazioni possessive, che giustificano il loro stato definendolo passionale. Ma l’amore vero è esattamente il contrario del possesso: l’amore vero trasforma i prigionieri in persone libere. Sembra quasi un paradosso: più crei legami più sei libero. Com’è possibile? 

Con questa verità i giovani fanno i conti di continuo. Quando viene detto loro: “ti do la libertà di fare quello che vuoi, perché non sei felice?” forse è perché non sanno cosa farsene, forse perché quella che si crede di offrirgli non è libertà, ma semplice indipendenza. La libertà è tutta un’altra storia, non la si può donare senza l’amore, senza una relazione. Questa però, implica sporcarsi le mani, parlare, ascoltare. Spesso e volentieri significa non fare, lasciare andare, non trattenere, aspettare che l’altro cresca con i suoi tempi. Stare accanto senza dover per forza parlare. 

Ma veniamo al dunque. In questa fiaba emergono due relazioni, in cui si può riconoscere il legame tra libertà e amore: quella tra la principessa e i suoi genitori e quella tra la principessa e il principe. La storia inizia raccontando il desiderio di una madre e un padre di avere un figlio. Quando il grande dono arriva, una grande festa è indetta. Tutte le fate del regno sono invitate tranne una. Quest’ultima, venutolo a sapere, si presenta ugualmente. Al momento di portare i regali alla fanciulla, le fate a turno le offrono in dono la bellezza, la ricchezza, e tutte quelle virtù più amabili che una persona vorrebbe ricevere. La fata non invitata, decide anche lei di portarle un dono. Ma più che una virtù le lascia un destino: la principessa, il giorno del suo quindicesimo compleanno, si pungerà con un ago e morirà. Di colpo, tutta la gioia del re e della regina lascia il posto a un dolore fulminante. Come una lancia che trafigge il petto, entrambi vedono la vita della loro unica figlia sfilare tra le loro mani senza che loro possano fare nulla, senza che possano controllarlo.

L’unica modifica possibile a questo destino di morte è quella proposta dall’ultima fata che mancava all’appello, la quale trasforma quella morte in un lungo sonno di cento anni. Inutili sono i tentativi del re e della regina di cambiare il suo destino. La principessa arriva al suo quindicesimo compleanno, e si punge con un ago. Forse non esiste dolore più grande che rimanere impotenti di fronte al destino di un altro, soprattutto se la morte incombe prima del previsto, soprattutto se si tratta della vita di un figlio. Un amore immenso, così forte, come quello di un genitore, che si scopre impotente. Scopre che non può proteggere il figlio in ogni circostanza. Prima o poi il dolore arriva, che lui lo voglia o meno, perché è la semplice vita. Eppure il genitore sente che il suo compito principale è quello di proteggere. Che lui esiste per quello. Se non riesce a proteggere non riesce ad amare. Ma lasciare che il figlio viva, che sia esposto al suo destino, significa amarlo. Lasciargli la libertà di provare dolore e poi scoprire una gioia più profonda, di provare a sbagliare e poi vedere che la strada per essere felici non è così lontana. Amare in questo modo non vuol dire allontanarsi o rinunciare per il troppo dolore, ma semplicemente stare accanto nel silenzio, vivendo quella prova insieme. Così, infatti, succede per il re e la regina. Si rendono partecipi del destino della figlia, entrando insieme a tutto il castello nel dolce sonno della principessa. Non potendo cambiare il suo destino, l’unica cosa che gli resta è viverlo insieme a lei: questo è amare. 

Intorno al castello cresce una siepe di rovi, che di anno in anno diventa sempre più alta, fino a coprirlo interamente. Molti principi nel corso del tempo provano ad affrontare il sentiero spinato, ma rimangono incastrati e alla fine muoiono. Al termine dei cento anni, giunge un altro principe. Ha udito parlar dell’ormai celebre leggenda di Rosaspina e vuole a tutti i costi provare anche lui a superare la siepe di rovi, anche se tutti cercano di dissuaderlo. Arriva davanti a quella che doveva essere una muraglia di spine e vede solo una siepe di grandi e bellissimi fiori, che lo conducono fino al castello. Sale su in cima alla torre dove dormiva la principessa, la bacia, e lei si sveglia. Subito dopo di lei, piano piano, si svegliano i genitori e via via tutto il castello. Pochi giorni e vengono celebrate le nozze. Abituati alla celebre versione Disney, che vede un valoroso cavaliere che sfida una perfida regina e con la spada si fa largo tra i rovi, si potrebbe rimanere un po’ delusi dalla semplicità della fiaba originale. Qui non c’è nessuna lotta, nessun grande ostacolo. Il principe giusto per la principessa, quello che lei attendeva, è semplicemente arrivato al momento perfetto. La realtà gli viene incontro come un’amica, preparandogli un sentiero di fiori al posto della muraglia di rovi. Prima non era ancora il tempo, nessuno poteva destare l’animo della principessa. 

Quando si sentono frasi tipo: “Noi siamo destinati a stare insieme, è la realtà che ci lotta contro”, abita dunque, a parer mio, un controsenso. Come se la vita fosse un’eterna lotta tra destini incompiuti e realtà nemiche. Ma questo ci riporta ancora a una visione prigioniera dell’amore, dove non c’è libertà. Siamo tutti schiavi di una sorte padrona che si scontra con le nostre storie, facendoci diventare vittime di un manuale già scritto. Ma il destino è l’amore che si compie nella tua storia, che la scrive insieme a te. La realtà dunque non può essere mai una nemica, ma anzi una vera amica. Colei che ti dice la verità quando nessun altro lo fa. Questo non vuol dire che tutto è rose e fiori, che l’amore vero non è mai provato. Le prove ci sono sempre, ma il modo in cui si affrontano è diverso se si sceglie di vedere la realtà come un’alleata. Dunque, il problema non è un destino infame, ma forse percepire l’altro come un proprio diritto, come un qualcosa che mi appartiene, su cui io ho messo il marchio. L’essere umano però sfugge al possesso, è troppo più grande di una semplice definizione. Non è un oggetto che acquista valore in base alle definizioni che tu gli dai. Non deve riempirsi di senso, perché è già senso. Il punto è che l’amore ti fa vedere l’altro non come un diritto ma come un dono, di cui prenderti cura. Amare vuol dire, dunque, guardare la persona avendo nel cuore sempre questa verità: tu non sei un semplice bisogno, ma sei la risposta alla domanda di amore che ho nel cuore. 

(Illustrazione di Hermine de Clauzade)

Libro di riferimento: J. e W. Grimm, Rosaspina, in Fiabetrad. it. C. Bovero, Einaudi, 2015.

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