L’ultima volta abbiamo parlato di come i personaggi del romanzo L’ultima spiaggia (On the beach) di Nevil Shute aspettino la nube nucleare come se niente fosse, come se la fine non fosse vicina. Il titolo italiano del libro di Shute è ripreso in uno dei puntualissimi interventi, datato 1983 e apparso su Rinascita, di una nostra vecchia conoscenza, Roberto Roversi. La cosa curiosa è che il pezzo del poeta bolognese, intitolato Le canzonette dell’ultima spiaggia, non parlava di letteratura, ma di due noti tormentoni che hanno spopolato nell’estate nel 1983 e che con il libro di Shute avevano molto a che spartire: Vamos a la playa e Tropicana.

Andiamo per gradi. Abbiamo ricordato Roversi come poeta, il Roversi critico e saggista tuttavia è altrettanto lungimirante e lucido e ringrazio ancora una volta il lavoro immenso degli eredi e della Pendragon, amministratori del sito, che ha come scopo la raccolta e la messa in ordine di tutto il corpus roversiano. Non è roba da poco, data la frammentarietà dell’autore, la sua pluridentità di libraio, poeta, paroliere, saggista e critico e la sua tendenza a evitare le grandi case editrici per la publicazione dei suoi versi. Ecco, questo portale ricopre la funzione che per altri autori ha l’opera omnia monografica in carta: personalmente, non riesco a non considerarlo un grande libro digitale e spesso, ogni volta che mi ci perdo, incappo in cose illuminanti.

Sì perché Roversi scriveva di tutto: Bologna, costume, cinema, sport, musica, politica e ovviamente letteratura. E, seppure ogni tanto gli accadesse di cedere a sue personali idiosincrasie discutibili, raramente cadeva in polarizzazioni facili e certo non cedeva il fianco a populismi scontati. Il suo è invece spesso un movimento dal micro al macro, una contestualizzazione delle cose del (suo) presente che trovava interessanti – e talvolta inquietanti – perché mostravano e mostrano come eravamo e come siamo diventati.

L’apocalisse nucleare
vista dalla spiaggia

Ecco, fra queste cose ci sono i tormentoni estivi. La parola tormentone in questo senso, dice lo Zanichelli, pare sia stata inserita nel dizionario proprio nell’estate 1983 quando uscirono Tropicana del Gruppo Italiano e Vamos a la playa dei Righeira. Due pezzi tutt’ora famosissimi, di cui tuttə cantano i ritornelli spesso senza rendersi conto che entrambi i pezzi descrivono un’apocalisse nucleare vista da una playa.

Patrizia Di Malta, voce del Gruppo Italiano, racconta – sotto un sorridente ritmo calypso – di aver sognato la città di San José a Cuba devastata da un ordigno nucleare (un’abbronzatura atomica) che a sua volta fa risvegliare un vulcano e dà origine a un uragano che spazza via i bungalow. Gli hula-hop dei bagnanti allora si struggono mentre la Tv ripete spot all’infinito (Bevila perché è Tropicana, yeah). Come nel romanzo di Shute, i protagonisti sulla spiaggia si sentono come distaccati da quello che sta avvenendo attorno: non trovano di meglio che constatare che sembra di stare in un film catastrofico. Allo stesso modo Righeira e La Bionda nel loro brano in spagnolo, dopo il ritornello satura-orecchie che tuttə ricordiamo, ci informano subito che La bomba estallò (è scoppiata) e che, nonostante il sombrero, il vento radiattivo spettina i capelli. L’allucinazione è simile a quella del Gruppo Italiano, l’atteggiamento dei protagonisti pure: i due Righeira commentano che il mare è molto più bello ora che è fluorescente e i pesci puzzolenti non ci sono più. Alienazione, dicevamo.

Avevate mai notato l’incubo post-atomico dietro questi due ballabili estivi? A Roversi certo non sfuggì.

Le canzonette dell’ultima spiaggia non è ancora presente nel sito ma ci sarà presto, assicurano le fonti interne della Pendragon: raccogliere tutti i sassolini lasciati in vita da Roversi d’altra parte è un lavoro lungo, l’opera omina è in fieri. Intanto, ringrazio l’Istituto Parri e il Museo del Risorgimento di Bologna per avermelo procurato. La premessa del poeta è questa:anche una canzonetta che sembra spappolata e che dura un’estate può servire a scendere (almeno) nel cuore del problema“.

E qual è il cuore del problema?

Che la catastrofe, per i giovani autori e le giovani autrici di Tropicana e Vamos a la playa, è già data, è già avvenuta, annoia anche un po’ il vederla di nuovo (non ti senti come al cinema?) cioè vedere sempre le stesse cose. Ecco il perché del disimpegno generazionale generale. La risposta alla domanda: “Ok, c’è questo rischio enorme di danneggiare per sempre il pianeta e la vita: cosa possiamo fare?” è in entrambi i casi niente, tanto il controllo sulle cose non l’abbiamo noi.
Nel 1983 si trattava di una catastrofe socio-moral-politico-ecologica di cui la bomba era metafora: era il periodo in cui la cura dell’ambiente era un problema fra i problemi. Per Roversi, e ancora una volta leggendo i suoi scritti degli anni Ottanta sembra di sentir parlare dell’oggi, queste canzoni sono una constatazione – fredda come: “un coltello taglientissimo il quale affondi nella carne di un animale squartato” – che le giovani generazioni non possono fare altro che aspettare che la catastrofe avvenga, anzi la danno già per avvenuta.

“Il mondo è quello perché la follia degli uomini non lo salva, se non a parole: i giovani si dispongono a viverlo dopo che i padri lo avranno tutto divorato. Essi non temono più il diluvio ma si dispongono a ricevere ciò che resterà del mondo dopo la masticata finale. Non molto, se ci sarà qualcosa“.

Sembrano parole provenienti dai discorsi più taglienti di Greta Thunberg, vero? Invece parla l’autore del Motore del Duemila e di Chiedi chi erano i Beatles, passato a miglior vita da nove anni. Parla uno dei poeti italiani anticipatori dell’ecopoesia (forse uno dei principali assieme a Zanzotto) e qui indirettamente – attraverso il pop-apocalitico – solleva uno dei problemi cruciali della cli-fi: come comunicare che si può salvare il salvabile in un mondo in cui, a partire dalla politica e a finire con gli umori della musica estiva, il disastro totale è dato già come inevitabile “quindi non è più in atto il terrore dell’attesa e il conseguente impegno per prevenirlo?”.
Ecco, quando nel precedente articolo dicevo che Roberto Roversi va stanato e letto di nuovo – anzi no, meglio, va fatto di nuovo parlare – mi riferivo a quanto può giovare alle nuove generazioni consapevoli un confronto diretto con un intellettuale che, dal passato, risulta talvolta inquietantemente attuale e aiuta a capire quale direzione dover prendere. In questo caso, aiuta a sviluppare dubbi legittimi sul disimpegno nato da mancanza di fiducia precoce di moltə adultə di oggi che sono statə ragazzə di ieri. Non è un caso che gli autori del documentario su Roversi di cui parlavo nello scorso articolo sono tra la ventina e la trentina.

Giratevi il sito, ragazzə. Troverete un alleato.

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