Spesso, chi critica l’Unione Europea si sente dire: “Allora preferiresti vivere altrove, dove la democrazia non esiste?”. È un’accusa vecchia di decenni: negli anni della Guerra Fredda, a chi criticava l’Occidente si rispondeva “se non ti piace, vai a vivere in Russia”. È un argomento che non vale nulla sul piano logico, ma è estremamente significativo che torni oggi, proprio mentre — come ho scritto nel mio articolo sull’euronazionalismo — è del tutto evidente la crisi di rappresentanza dell’Europa a guida liberale.

Un’Europa nata ipotizzando trattati fondati su un vasto consenso popolare, che però, quando quel consenso è venuto meno, ha scelto di imporre quei trattati in forma autoritaria, passando sopra la testa dei popoli che diceva di voler rappresentare. Basti pensare a Ursula von der Leyen che, dopo essersi vista bocciare il piano di riarmo europeo, procede comunque per la sua strada, affermando che “la maggioranza del popolo europeo è a favore del riarmo” — cosa che non è affatto vera.

Difendere la democrazia europea dalle minacce globali

Oggi si sente ripetere ovunque che bisogna difendere la democrazia europea dalle minacce globali: Trump, Putin, la Cina, l’ascesa dei populismi. Ma questo appello si regge su un malinteso di fondo: l’idea che la democrazia sia qualcosa che esiste di fatto, una realtà acquisita, e che vada semplicemente protetta da forze esterne. In realtà, la democrazia non è mai un dato, ma un processo. Non è una condizione che si possa dire presente o assente una volta per tutte, ma un movimento storico, attraversato da conflitti, crisi e trasformazioni.

Per capire questo, basta guardare alle grandi fasi della storia democratica: la democrazia ateniese, fortemente partecipativa ma esclusiva, limitata ai soli cittadini liberi; la democrazia moderna ottocentesca, che nasce accanto alle istituzioni liberali e le trasforma progressivamente attraverso l’avvento del suffragio universale e della società di massa; infine, la democrazia progressiva del secondo dopoguerra, che rappresenta una sintesi senza precedenti tra diritti civili, politici e sociali.

Quest’ultima forma democratica è nata dalla sconfitta del fascismo e porta in sé un paradosso noto: la tolleranza non può tollerare chi vuole distruggerla. Ma questa non era solo una regola formale: gli agenti potenzialmente distruttivi della democrazia erano contenuti da un processo materiale di allargamento democratico. La crescita economica, l’ampliamento del welfare e dei diritti permettevano alle classi subalterne di diventare progressivamente più consapevoli e protagoniste della vita collettiva. Non era solo un problema di consumo, ma di autodeterminazione e di capacità collettiva di scegliere e progettare.

L’antifascismo, la resistenza, la democrazia

L’antifascismo, in questo quadro, non era soltanto testimoniale o simbolico, ma veniva percepito come la base stessa della democrazia. Non a caso, oggi anche questa eredità è messa in discussione. Si è potuto arrivare a sostenere un’equiparazione tra la resistenza partigiana e la resistenza ucraina, nonostante fosse evidente l’intreccio profondo tra l’estrema destra e il governo di Kiev, così come le tesi revisioniste che alimentano la propaganda banderista, che in Ucraina — come in molti paesi baltici ed esteuropei — puntano a cancellare del tutto l’eredità storica dell’Unione Sovietica e quindi della Russia nella sconfitta del nazismo e nel salvataggio della democrazia europea. Emblematiche, da questo punto di vista, sono le recenti polemiche sul tentativo di escludere la Russia dalle celebrazioni per l’ottantesimo anniversario della vittoria nella Seconda Guerra Mondiale.

Questo dimostra l’impazzimento della sfera pubblica e del linguaggio con cui siamo costretti a confrontarci ogni giorno: laddove l’antifascismo storico viene considerato connivente con l’autoritarismo ex-europeo, sono giudicati legittimi antifascisti coloro che propagandano la guerra e la riduzione della sfera pubblica attraverso un’attiva censura di tutto ciò che non rientra nella narrativa mainstream, in una grande melassa che va dai no-vax fino ai propal.

Il grande rimosso che rende vuote, piatte e prive di significato parole come democrazia, autoritarismo, fascismo, antifascismo, è la natura politica e sociale di quell’opposizione di sinistra che, all’interno dei paesi dominati dal nazismo e dal fascismo così come all’esterno, aveva come sua parte più attiva e combattiva il comunismo. È l’oblio del comunismo — da cui ci si aspettava un mondo finalmente pacificato e democratico — che deriva paradossalmente l’eclissi della democrazia, particolarmente di quella democrazia nata dalle ceneri della guerra, che ospitava al suo interno un progetto di radicale emancipazione collettiva e che senza il comunismo non sarebbe mai nata né avrebbe avuto la spinta propulsiva per affermarsi.

Il crollo dell’Unione Sovietica

Questo processo aveva i suoi limiti e contraddizioni, ed è entrato in crisi storica con il crollo dell’Unione Sovietica, che incarnava l’“altro” del mondo democratico liberale. Oggi, l’appello a non tollerare gli intolleranti si ripropone, ma in una forma profondamente diversa: sono le stesse élite liberali a decidere unilateralmente chi è intollerante, usando strumenti come i fact-checker e il controllo dell’infosfera per definire i confini del dibattito pubblico.La democrazia è diventata un significante vuoto.

È una parola che non indica più una realtà sostanziale, che implicherebbe un processo, l’idea che la democrazia possa diventare sempre più vera, inverarsi, vivere dei suoi conflitti. Il conflitto materiale ed economico viene ormai gestito burocraticamente dall’alto ed espulso simbolicamente dall’ordine del discorso, attraverso una censura preventiva di ciò che è possibile dire e pensare e ciò che non lo è. La democrazia è ridotta a un simbolo che indica lo stato attuale di stasi e decadenza del processo di unificazione europea, quell’euronazionalismo che di fatto nega tutto ciò che la democrazia ha significato idealmente nel dopoguerra. Oggi dire “democrazia” significa difendere lo status quo come “male minore”.

Ma in realtà questo male minore prepara un male sempre più grande. Dall’imposizione autoritaria dei trattati europei fino all’imposizione autoritaria del riarmo, quello che vediamo è un arco che si compie, che non era necessariamente un destino, ma che si è rivelato tale una volta che la conflittualità politica è stata sabotata e manomessa.

Nei parlamenti, così come nell’informazione, nessuna alternativa all’ordine sociale esistente è più possibile. La logica perversamente “realistica” del male minore ha spazzato via ogni bene possibile e riducendolo sempre più a utopia irresponsabile. Oggi chi vagheggia il possibile è ipso facto considerato affine ai nemici della democrazia e della libertà: chiunque critichi le attuali dirigenze liberali viene automaticamente arruolato nelle liste dei nemici dell’Europa e della sua storia, un fiancheggiatore del fascismo, dell’autoritarismo, nldel putinismo, di Hamas, ecc.

Per segnalare la distanza siderale che c’è tra le classi dirigenti attuali e quelle di un tempo, basta ricordare come un democristiano degli anni ’70-’80 non vedeva alcuna contraddizione nel relazionarsi con i leader dell’OLP, mentre oggi qualsiasi forma di solidarietà con il popolo palestinese viene automaticamente identificata con l’antisemitismo, se non addirittura con la connivenza col radicalismo islamico. Il risultato è che la crisi della democrazia non è più solo formale, ma sostanziale. Non solo sono scomparse le dinamiche di crescita progressiva che coinvolgevano le classi subalterne, ma anche l’aspetto tecnico-giuridico della democrazia liberale sta progressivamente svuotandosi.

Difendere la democrazia, oggi, significherebbe allora smettere di considerarla come una proprietà da custodire e riprendere a pensarla come un processo aperto, conflittuale, in cui ridiscutere non solo chi governa, ma come, soprattutto, per chi.

Per approfondire questi temi invitiamo il lettore a riscoprire un classico: Lo Stato, il potere, il socialismo di Nicos Poulantzas, una lettura indispensabile per capire il rapporto tra democrazia, Stato e lotte di classe.

Condividi: