Profumo di zagare e nero di fuliggine, strade assolate e vento di montagna. Silenzi pesanti come macigni e fiumi di parole che liberano anime in pena. E poi la storia della mia terra, la Sicilia, stretta tra bellezza e rovina, fatalismo e fuga, sensualità e arretratezza. Peppino Giunta deve aspettare mezzo secolo prima di raccontare del peso che affligge il suo cuore: non può che farlo in un luogo lontano da casa, dal suo paese, luogo immaginario ma così vero da poter essere qualsiasi cittadina etnea, uno dei tanti paesi pedemontani che circondano l’Etna, che girano attorno a Idda, proprio come Giramonte, il borgo natio di Peppino.

E la vita dei suoi abitanti pare girare proprio solo intorno al monte, che persino Catania è lontana, luogo di perdizione, niura di lava e azzurra di mari. Giramonte, che gira attorno a se stessa e che di girare il mondo ha paura, perché il microcosmo è tutto lì, e questo bisogna farsi bastare. Per raccontare del suo dolore e condividere la tragedia, Peppino Giunta ha bisogno di un luogo asettico, estraneo e al contempo intimo, la redazione del giornale milanese dove lavora come correttore di bozze: e sceglie una notte e il suo paziente caporedattore, così lontano e mai così vicino, a cui racconta di sé come fosse una cronaca di fatti lontani, un caso da riaprire, come si fa con il proprio cuore insieme inaridito e gonfio di emozioni. Nel silenzio della notte risuona il lontano 1972, gli spari dolenti, il dolore di una madre, le certezze granitiche e insieme scomposte di un padre imprigionato dentro convenzioni e rituali apparentemente rassicuranti che lo schiacceranno, proprio come farà il trattore che lo porterà a morire.

Sullo sfondo riti primordiali, delitti di mafia e “la roba” di verghiana memoria come supremo valore, tra ciuciuliamenti e ipocrisie, sino a respingere la pietà cristiana in nome di un conformismo gretto e timoroso, unico strumento per tutelare una comunità ripiegata dentro se stessa. Sino a quando tutto questo può essere possibile? La morte del fratello di Peppino, Saverio, libero e giusto, eroe triste di una storia tragica, trovato sotto un albero con riverso su di lui il corpo del ribelle Matteo, suo primo amore, u puppu co’ bullu, il gay venuto da Catania a scompaginare immobilismo e rituali cristallizzati di una società maschilista e arretrata, cambia tutto nella sua vita e in quella della sua famiglia; i suoi genitori vengono lasciati soli dalla comunità a cui erano avvinti come i Malavoglia al loro scoglio, comunità che per tutelare se stessa abbandona ogni afflato empatico e autentico valore cristiano, negando la verità e costruendone un’altra più consona all’ipocrisia che la domina e al timore di confrontarsi con la diversità, intrisa com’è di falso moralismo. Solo le madri, quella di Saverio e quella del compagno di giochi dei due fratelli non proprio a posto con la testa, conserveranno il segreto della verità fino alla morte, segreto che Peppino conoscerà per volontà della sua stessa madre, Elena.

Peppino tornerà a Catania, mai a Giramonte, solo per qualche ora, chiamato da Tino Busacca, un professore con velleità comuniste e portatore di nuovi orizzonti politici, ma inconcludente e confuso, eterno amico del padre, sebbene assai diverso, erma bifronte in bilico tra spinta modernista e stasi arcaica, proprio come questa mia isola splendida e piena di contraddizioni: Peppino affonderà i piedi nudi sulla sabbia, vedrà il mare negato della Playa di Catania, vissuto come perdizione dagli abitanti di Giramonte, per tornare a Milano, lasciandosi il passato dietro di sé.

Di questo romanzo sospeso tra cronaca e narrativa, verità e illusioni, fantasia e verosimiglianza, tra i tanti passi che mi hanno colpito, uno in particolare ha lasciato il segno, intriso di suggestioni solo apparentemente lontane: “Mio padre parlava di soldi, prima di tutto. E poi di donne. Di quelle degli altri, è chiaro. Forse era questo che lui e il professore comunista condividevano senza che alcuna barriera culturale potesse dividerli. Sia chiaro: mai avrebbe alluso a eventuali tradimenti. Era un uomo d’onore che portava rispetto alla moglie. Avevamo, io e Saverio, l’impressione che in questa continenza ci fosse qualcosa di forzato che lo faceva soffrire. Spesso ridacchiava al ricordo di sue vecchie fiamme, prima di fidanzarsi con mia madre. Tutte belle, tutte sode, a giudicare dalle minuziose descrizioni che faceva, e pronte a farsi sbucciare come un’arancia dalle sue mani esperte. Mai belle quanto sua moglie, però. Meno che mai pure e sagge come la sua Angela, che meritava la sua adorazione incondizionata e perciò lontana mondi e galassie dalla condotta poco meno che meretricia delle altre. La nomina, rosario quotidiano della vita giramontese, credo laico di una fede professata da molti, passatempo innocente di signore e signorine, non era solo una fissa di mio padre. Quando qualche volta ascoltavo annoiato i discorsi degli operai, la nomina era l’asse portante alla quale i dialoghi si aggrappavano disperatamente, così da non dover mai cambiare strada”. Mi ricorda tanto un film del 1964 ambientato in Sicilia che ho amato, Sedotta e abbandonata di Pietro Germi: e vedo in Michele Giunta, il padre di Peppino, proprio Don Vincenzo Ascalone, come lui strenue difensore della sua famiglia, attento alla nomina e ai pettegolezzi più che alla comprensione e all’affetto, sempre e comunque nell’alveo di convenzioni sociali e arretratezze culturali che condannano ogni forma di diversità e portano solo solitudine, tragedia e morte.

Meglio non poteva raccontarlo Rosa Maria Di Natale nel suo romanzo Il silenzio dei giorni (Ianieri Edizioni, 2021): la giornalista e scrittrice, che vive e lavora a Catania, ha vinto il Premio Ilaria Alpi nel 2007 con una video-inchiesta, è stata docente di Giornalismo, comunicazione e nuovi media all’Università di Catania, ha pubblicato racconti e un libro, Potere di Link- Scritture e letture dalla carta ai nuovi media (Bonanno, 2009), ci regala uno spaccato di società ricco di contraddizioni, tra passioni ribelli, violenze nascoste, silenzi timorosi e parole liberatorie. Il silenzio dei giorni viene spezzato dal suo linguaggio insieme lucido e romanzato, dolente e commosso, capace di trasformare un fatto di cronaca realmente accaduto a Giarre nel 1980 al quale il romanzo è liberamente ispirato, tragedia in cui morirono Giorgio e Antonio, due giovani omosessuali sacrificati in nome di ipocrite convenzioni sociali, in un afflato di verità e un desiderio di giustizia, contro l’omofobia imperante e ogni forma di discriminazione; quello stesso delitto di Giarre (per approfondire, consiglio la lettura del libro del giornalista Francesco Lepore Il delitto di Giarre. 1980: un caso insoluto e le battaglie del movimento Lgbt+ in Italia, Rizzoli – 2021) che, vale la pena ricordarlo in questi tempi segnati da venti conservatori e falsi moralismi, portò alla fondazione del primo nucleo di militanti gay e l’anno successivo, a Palermo, alla prima Festa nazionale dell’orgoglio omosessuale.
Da leggere.

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