C’è qualcosa che durerà più a lungo di questa pandemia e sono gli effetti che il Covid-19 lascerà nella nostra psiche, sulla nostra salute mentale. L’etologia umana e sociale, la psicologia ritengono che non siamo progettati per gestire a lungo forme di isolamento sociale, tranne in rari casi frutto di scelte assolute come quelle fatte da eremit* o monac* trappist* e certosin*. C’è un’emergenza nell’emergenza e questa riguarda il benessere psicologico. Perché, come sostiene l’Organizzazione mondiale della sanità, non c’è salute senza salute mentale. L’Eurostat stima che in Italia siano 3,5 milioni le persone che combattono contro la depressione e che in Europa siano oltre 35 milioni: una cifra che secondo gli esperti è destinata ad aumentare. Dopo le patologie cardiovascolari, rappresenta la malattia più diffusa al mondo.
È da questa evidenza e consapevolezza che dovremmo comprendere come le malattie mentali, in particolare i disturbi legati alla depressione e all’ansia, siano un tema di enorme rilevanza sociale. Si tratta di un iceberg di cui si vede solo la punta, un iceberg che non impatta solo sul sistema sanitario. Ma riguarda una serie di comportamenti sociali che vorrebbero che argomenti come la salute mentale fossero trattati, anche al di fuori della comunità scientifica e quindi nella nostra quotidianità, con rigore e metodo.
Perché un modo per curare, contrastare e combattere i pregiudizi e gli stereotipi che ancora oggi determinano lo stigma nei confronti della malattia mentale e delle persone che ne sono affette riguarda anche le parole che usiamo per definirli. Torno sulle parole. Su quelle che dovremmo usare per dirlo, sull’uso spesso scellerato che ne facciamo. Perché se è vero, come sosteneva Paul Watzlawick nel primo assioma della comunicazione, che “non si può non comunicare”, dipende però dal modo in cui comunichiamo; e non possiamo dimenticare che le parole, il silenzio o l’attività che facciamo hanno sempre valore di messaggio e influenzano gli altri.
Il linguaggio ci parla! Allora come parliamo, come usiamo le parole? E come le usiamo quando ci troviamo a parlare della malattia mentale? Non possiamo far finta di non sapere che ci sono parole che fanno bene e parole che fanno male. Riflettiamo sul modo con cui talvolta appelliamo le persone che soffrono di un disturbo mentale: li chiamiamo matti, pazzi, fuori di testa. Invece raccontare la malattia mentale con rigore significa comprendere la grande differenza che sta nel dire quella è una depressa o quella donna soffre di depressione, quello è un pazzo schizofrenico o quell’uomo ha gravi problemi psichiatrici con forti disturbi della personalità. È nell’uso che facciamo di queste diverse locuzioni, che si annida la differenza: una differenza che consiste innanzitutto nel non essere pregiudiziali, nel non stigmatizzare il malato. Nel considerarlo prima di tutto persona, una persona con un problema di salute. Proprio come comunemente avviene per coloro che hanno una qualsiasi altra patologia.
Proviamo a usare parole che aggiungono valore e non che sottraggono, parole che accomunano invece di isolare, parole che curano e non che ammalano, parole che sensibilizzano e che tengano conto del senso e del contesto in cui vengono pronunciate. Non possono e non devono essere usate parole come pazzo, raptus, si è suicidato dopo l’abbondono… Con l’uso di queste parole invece di informare sulla realtà la deformiamo e non aiutiamo le persone a comprendere. Così come non aiutiamo le persone più fragili nel loro percorso di salute. Dobbiamo fare una scelta di campo che riguarda soprattutto le parole che usiamo: dobbiamo utilizzare quelle lenitive non quelle lesive. La sfida da raccogliere sta nel mettere da parte il sensazionalismo da cronaca e gli incommensurabili danni che produce e mettere l’accento sulle parole che fanno bene per ribaltare quelle che fanno male.
In tema di salute mentale e di come comunicarla sui media, all’interno del contesto famigliare e sociale c’è bisogno di una nuova alfabetizzazione e di un glossario ragionato che ci guidi per ribaltare ed eliminare lo stigma che ancora perdura nei confronti della malattia mentale e delle persone che ne sono affette. Il rispetto della persona e della sua malattia passa anche, se non soprattutto, attraverso le parole, con cui li si definisce. I mass media possano avere un grandissimo impatto sull’idea e la percezione con cui le persone costruiscono la loro visione del mondo. Se, come sostiene il cantautore Caetano Veloso “visto da vicino nessuno è normale” allora proviamo ognuno a suo modo a essere straordinari, anche nella scelta delle parole. Facciamolo ora e non domani. Perché ora, più che mai, è tempo di collaborazione e responsabilità. Solo così ce la faremo.