Se si esclude l’interesse dimostrato dalla stampa internazionale per gli eventi tragici determinati dalla dura repressione attuata dai militari a partire dal 2016 contro la minoranza musulmana dei Rohingya, la Birmania non era più da lungo tempo al centro dell’attenzione dei  media internazionali. Il primo di febbraio, in modo quasi improvviso, si sono verificati alcuni drammatici fatti politici, fra i quali l’arresto della consigliera di stato Aung San Suu Kyi, che per la loro gravità hanno avuto l’immediato effetto di richiamare di nuovo l’attenzione mediatica su questo paese. 

Per capire meglio la dinamica di questi fatti, ed i possibili esiti che da essi possono derivare, è necessario fare un riferimento di carattere generale alla storia recente della Birmania e, soprattutto, andando un po’ indietro nel tempo, occorre richiamare alla mente, per i molteplici nessi che essi hanno con i fatti attuali, gli eventi, altrettanto drammatici, che si sono verificati nel 2007. In quell’anno, infatti, la Birmania si trova al centro dell’interesse dell’opinione pubblica mondiale grazie alla potenza delle immagini delle proteste dei monaci, trasmesse dai mezzi di comunicazione di tutto il mondo, che marciano in nome della democrazia e della libertà, proponendosi  per il loro numero ragguardevole, circa 500.000, come un vero esercito disarmato contrapposto a quello militare.

Nel 2007, mi trovo in viaggio in Birmania per una ricerca sulla storia e la cultura del paese che si tradurrà in seguito nella pubblicazione del libro Birmania oltre la repressione.  Proprio in quel periodo, iniziano le prime proteste causate dall’improvviso rincaro del 500% del prezzo della benzina deciso dal governo. Questo rincaro, che determina un drastico peggioramento delle condizioni di vita della popolazione, provoca un malcontento generale, che sfocia poi in quella che viene chiamata la rivoluzione zafferano, in  riferimento al colore delle vesti dei monaci che inizialmente conducono la protesta con metodi non violenti assieme ad attivisti dell’opposizione democratica con l’intento di obbligare la giunta militare al potere a un maggiore rispetto dei principi democratici e dei diritti umani.

A queste dimostrazioni pacifiche, iniziate il 19 agosto 2007 seguono dal 18 al 26 settembre 2007 numerose altre manifestazioni di protesta, che vedono una partecipazione sempre più ampia della popolazione civile e che investono tutto il paese, e soprattutto le città di Rangoon (oggi denominata Yangon), Mandalay, Pakokku e Sittwe. La giunta militare, com’era prevedibile considerando i suoi comportamenti passati, la sua natura violenta e profondamente antidemocratica e gli interessi economici in gioco, reprime duramente le manifestazioni di protesta. Si registrano in questo periodo casi di detenzioni illegittime, sparizioni, uccisioni (le vittime furono oltre 200) e torture delle quali non si conosce il numero esatto; vengono arrestati, con lo scopo di indebolire la forza del movimento di protesta, molti leader dei movimenti impegnati nelle lotte di carattere sociale e politico: 88 generation students group, Burma Labor Solidarity Organization, Human Rights Defenders and Promoters, ex prigionieri politici, studenti universitari, i membri del NLD (Lega Nazionale per la Democrazia) guidato dalla leader Aung San Suu Kyi (Premio Nobel per la Pace nel 1991) e del Myanmar Development Committee.

La Birmania a partire dal 18 giugno 1989 viene denominata ufficialmente Myanmar dalla giunta militare che nel 1988 aveva preso il potere con un colpo di stato, col pretesto che il termine Birmania fosse un retaggio del colonialismo europeo. Geograficamente, è uno Stato dell’Asia sudorientale: occupa parte della costa occidentale della penisola indocinese, si affaccia sul Golfo del Bengala e sul mar delle Andamane e confina da ovest ad est con India, Bangladesh, Cina, Thailandia e Laos.  

Con riferimento alla sua storia recente, il paese conosce dapprima la dominazione inglese e giapponese, e solo nel 1948 si trasforma in una Repubblica indipendente. Nel 1962 il governo democratico viene abbattuto da un colpo di stato militare condotto dal Generale Ne Win, e fino al 1988 si ha un regime comunista (economia rigorosamente collettivista che riduce il paese alla fame, nazionalizzazione delle industrie, soppressione dei partiti politici e proibizione del libero scambio). Nel 1988, dopo le rivolte studentesche che provocano migliaia di morti, il generale Ne Win si dimette e la Birmania cade sotto il regime militare del generale Saw Maung, a cui succede nella primavera del 1992 il generale Than Shwe. Nel 1990 si tengono per la prima volta dopo 30 anni elezioni libere, vinte dal NLD che porta all’Assemblea Costituente 392 membri, su un totale di 485, ma alle quali segue l’annullamento delle elezioni e l’arresto di Aung San Suu Kyi, leader del NLD.

Aung  San Suu Kyi, è una figura politica complessa al centro della storia del Myanmar da oltre 30 anni, dei quali più di 15 trascorsi in prigione o agli arresti domiciliari. Attivista per la democrazia, leader politica nonviolenta, ispirata dalle teorie di Gandhi e dal movimento per i diritti civili di Martin Luther King, nel 1990 riceve il premio Sakharo (revocato dall’Europarlamento nel 2020 per  avere ‘accettato’ le violenze e gli abusi commessi dai militari nei confronti della minoranza musulmana Rohingya), seguito dal Nobel per la Pace nel 1991. Successivamente alla sua liberazione nel 2010 diviene capo dell’opposizione e infine, dopo la vittoria alle elezioni del 2015, le prime davvero libere in 25 anni, le vengono affidati diversi ministeri e le viene conferito il ruolo di consigliere di stato del Myanmar. Non può però accedere alla presidenza a causa di una riforma costituzionale fatta approvare dal regime militare nel 2008, che impedisce la presidenza a chiunque abbia sposato un cittadino straniero.

In questi cinque anni di governo, delude le aspettative di molti soprattutto per aver ignorato e poi giustificato la persecuzione della minoranza Rohingya da parte delle forze armate. I Rohingya sono un gruppo etnico di religione musulmana che vive in un paese a maggioranza buddhista e costituiscono una delle minoranze più perseguitate al mondo. Dal 2017 i Rohingya sono vittime di una vera e propria pulizia etnica: centinaia di migliaia di persone uccise, donne stuprate, villaggi incendiati e moltissime persone di questa etnia costrette a cercare riparo nel Bangladesh, per sfuggire al genocidio. Quando nel 2019 si presenta davanti alla Corte internazionale di giustizia che mette sotto accusa di genocidio il suo paese, Aung San Suu Kyi di fatto appoggia l’esercito affermando che le accuse erano frutto di un quadro incompleto e fuorviante della situazione nel Rakhine, uno degli stati della Birmania che si affaccia sul golfo del Bengala e che confina a nord col Bangladesh. Sebbene a causa di questo suo atteggiamento in molti a livello internazionale chiedano la revoca delle importanti onorificenze che le erano state conferite, compreso il nobel per la pace nel 1991, l’apprezzamento nella sua patria continua a rimanere ancora alto, tanto che alle elezioni di novembre del 2020 – criticate dalle organizzazioni internazionali perché oltre un milione di Rohingya e di appartenenti ad altre etnie sono esclusi dal voto – la NLD conquista oltre l’80% dei seggi contendibili, sconfiggendo duramente il partito legato ai militari. L’esercito birmano si sente minacciato nella sua pretesa di gestione assoluta del potere, e come spinto da un riflesso condizionato, il primo febbraio 2021, sotto la guida del generale Min Aung Hlaing, reiterando un copione già collaudato parecchie volte in passato, col pretesto di presunte irregolarità nel voto di novembre, attua l’ennesimo colpo di stato, mettendo sotto arresto la consigliera di stato Aung San Suu Kyi, con la ridicola accusa di importazione illegale di due walkie-talkie.

Se si riflette sulle cause e sulle modalità di questo nuovo colpo di stato e si prendono in considerazione le reazioni da esso suscitate nel paese, non si può fare a meno di pensare che in Birmania rispetto all’ultimo colpo di stato del 2007 è come se il tempo non sia mai passato e che il nastro della storia si sia riavvolto: Aung San Suu Kyi ritorna prigioniera, i birmani protestano in strada e l’Occidente chiede più democrazia e libertà minacciando le inevitabili sanzioni che colpiranno solamente la popolazione locale.

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