(English translation below)
Che succede se un contadino algerino decide di iscriversi al Salone dell’Agricoltura di Parigi con la sua unica e adorata vacca di nome Jacqueline? Inizia così il road movie di Mohamed Hamidi (distribuito in Italia da Teodora Film) che ho rivisto due sere fa e che mi ha fatto riflettere su alcuni temi caldi del momento.
La storia è molto naïf: Fatah Ballabes è un contadino ingenuo e dal cuore tenero. Pazzo della sua vacca Jacqueline, è fiero della sua monumentale bellezza, e si ostina a voler partecipare al Salone dell’Agricoltura per gareggiare nella competizione che premia la mucca più bella. E così, dopo insistenti lettere con richiesta di partecipazione, viene iscritto alla gara. E parte per un lungo viaggio da fare per mare fino a Marsiglia, e poi a piedi, mucca al guinzaglio, fino a Parigi.

Il film si snoda tra i paesaggi più tipici della Francia del sud per salire, lentamente, fino alle regioni del nord. Un viaggio lungo il quale Fatah incontra molte persone, tutte stupite dalla sua incoscienza (o coraggio?) e dalla sua determinazione (o ingenuità?) nel voler perseguire questo sogno con la sua compagna inseparabile, la vacca Jacqueline.

Quali sono i temi trattati
da questa pellicola di straordinaria dolcezza narrativa?

Innanzitutto il tema della diversità culturale: Fatah lascia in Algeria una moglie che lui non sfiora nemmeno, e che chiama semplicemente moglie, perché è così che ha imparato a fare (quasi fosse un oggetto privo di nome e personalità) e poi incontra donne francesi con cui instaura un profondo feeling una volta liberatosi, grazie a qualche bicchiere di troppo, dai condizionamenti culturali della sua terra. Una diversità di superficie quindi, che una volta scalfita, fa emergere l’essere umano con i suoi slanci d’affetto, le sue emozioni, le sue fragilità. Un essere umano troppo spesso ingabbiato dentro costruzioni socio-culturali rigide come sbarre di ferro.

Ma poi c’è il tema dei social, raccontato in modo molto divertente. Quando il viaggio di Fatah infatti comincia a destare attenzione, la sua storia inizia ad essere seguita sui social network fino a coinvolgere i media nazionali. Tutti si accorgono della sua pazza impresa e ne vogliono documentare i vari passaggi, con selfie e testimonianze dirette. I like e le condivisioni si moltiplicano, e l’eco della sua notorietà rimbalza fino in Algeria, dove la moglie e gli amici che lo hanno visto partire rimangono stupefatti dalle avventure in cui Fatah si fa immortalare, avventure a cui loro assistono dall’unico computer del piccolo paese rurale dove vivono. Un contrasto culturale che il regista Mohamed Hamidi sa raccontare con delicata ironia, e che mette l’accento sulle conseguenze di una globalizzazione e di uno sviluppo tecnologico che ha reso il nostro Pianeta sempre più piccolo, esasperandone i contrasti.

Non manca poi il tema dell’accoglienza: nel film sono tutti disponibili ad aiutare Fatah, a dargli ospitalità, a risolvergli i problemi, a tirarlo fuori dai guai. Qualche critico ha definito il film buonista, ma in realtà l’intenzione registica è proprio quella di fare capire che la via dell’accoglienza è più semplice e più conveniente di quella dell’odio. Il suo approccio favolistico nasce proprio dalla volontà di dimostrare che un’altra scelta, diversa da quella dell’odio e della discriminazione, non solo è possibile, ma è anche più divertente.

E poi c’è il tema del rapporto tra essere umano e animale: Fatah è profondamente affezionato a Jacqueline, vacca con la quale instaura una relazione familiare, intima, sincera, un rapporto autentico che dimostra quanto sia facile scatenare un contatto empatico con un essere senziente. Un rapporto molto più sincero del rapporto che Fatah ha con la sua stessa moglie, e che il contadino algerino è pronto a difendere con ogni mezzo, come quando Jacqueline gli viene sottratta durante gli scontri tra agricoltori rischiando di essere portata al macello. E qui il regista inserisce anche una raffinata citazione cinematografica, quando Fatah vede in televisione un vecchio film di Henri Verneuil, La vacca e il prigioniero, in cui il grande Fernandel interpreta un prigioniero di guerra che pure instaura un rapporto empatico con la vacca Margherita.

Un film che scardina anche tanti luoghi comuni, a partire dal nobile impoverito che Fatah incontra sulla sua strada e che gli insegna a scrivere lettere d’amore alla moglie lontana (perché si sa che i francesi sanno parlare d’amore) per poi scoprire che è un uomo solo e depresso, la cui depressione sarà guarita proprio dalla infantile joie de vivre di Fatah. Questo per dire che non sempre dove c’è civiltà e progresso, tecnologia e comfort, c’è anche benessere interiore. E non a caso infatti Fatah si imbatte in una protesta di agricoltori che finisce in rivolta, a voler sottolineare che spesso il sogno europeo di tanti immigrati poi si schianta contro una realtà amara e feroce.

Ad accompagnare questo viaggio fantastico è una colonna sonora dal ritmo gitano, opera del compositore Ibrahim Maalouf, capace di immergere lo spettatore in un’atmosfera balcanica che sa accompagnare con raffinata maestria il tema dell’incontro tra culture diverse.

Il sogno da realizzare

E per finire, il film indaga con leggerezza il tema del sogno da realizzare: la possibilità di credere in qualcosa, nonostante tutto e tutti cerchino in ogni modo di smontare quel sogno. Fatah, in fondo, ci ha sempre creduto in quel viaggio, nella possibilità di partire con la sua Jacqueline per Parigi, di partecipare a quel salone, e di vincere quel premio.
E, tutto sommato, è quello in cui vogliamo credere tutti. Il regista Mohamed Hamidi non ha fatto altro che trasporre sullo schermo, con delicatezza ed intelligente umorismo, una favola in cui tutti noi vorremmo credere.

ENGLISH VERSION

Traveling with Jacqueline: a road movie to talk about Europe and inclusion

What happens if an Algerian farmer decides to sign up for the Paris Agricultural Show with his one beloved cow named Jacqueline? Thus begins the road movie by Mohamed Hamidi (distributed in Italy by Teodora Film) that I saw two nights ago, and that made me reflect on some hot topics of the moment.
The story is very naïve: Fatah Ballabes is a naive farmer with a tender heart. Crazy about his cow Jacqueline, he is proud of her monumental beauty, and he insists on wanting to participate in the Agricultural Show to compete in the competition that rewards the most beautiful cow. And so, after persistent letters requesting participation, he is accepted. And he goes on a long journey by sea to Marseille, and then on foot, cow on a leash, to Paris.

The film winds through the most typical landscapes of southern France to slowly climb up to the northern regions. A journey along which Fatah meets many people, all amazed by his recklessness (or courage?) And by his determination (or naivety?) In wanting to pursue this dream with his inseparable companion, the cow Jacqueline.

What are the topics
covered by this film
of extraordinary narrative sweetness?

First of all, the theme of cultural diversity: Fatah leaves in Algeria a wife that he does not even touch, and that he simply calls wife, because this is how he learned to do it (as if it were an object without a name and personality) and then he meets French women with which establishes a deep feeling once freed, thanks to a few glasses too many, from the cultural conditioning of his land. A surface diversity, therefore, which once scratched, brings out the human being with his outbursts of affection, his emotions, his fragility. A human being too often caged in socio-cultural constructions as rigid as iron bars.

But then there is the theme of social media, told in a very funny way. When Fatah’s journey in fact begins to arouse attention, his story begins to be followed on social networks to involve the national media. Everyone realizes his crazy enterprise and wants to document the various passages, with selfies and direct testimonies. Likes and shares multiply, and the echo of his notoriety bounces back to Algeria, where his wife and friends who saw him leave are amazed by the adventures in which Fatah is immortalized, adventures they witness from the only one computer of the small rural town where they live. A cultural contrast that director Mohamed Hamidi knows how to tell with delicate irony, and which emphasizes the consequences of globalization and technological development that has made our planet smaller and smaller, exasperating the contrasts.

There is also the theme of hospitality: in the film they are all available to help Fatah, to give him hospitality, to solve his problems, to get him out of trouble. Some critics have defined the film as feel-good, but in reality, the director’s intention is to make it clear that the path of acceptance is simpler and more convenient than that of hatred. His fairytale approach stems precisely from the desire to demonstrate that another choice, other than that of hatred and discrimination, is not only possible but also more fun.

And then there is the theme of the relationship between human and animal: Fatah is deeply attached to Jacqueline, a cow with whom he establishes a family, intimate, sincere relationship, an authentic relationship that demonstrates how easy it is to unleash an empathic contact with a being. sentient. A much more sincere relationship than the relationship that Fatah has with his own wife, and that the Algerian farmer is ready to defend by any means, as when Jacqueline is stolen from him during the clashes between farmers and risks being taken to slaughter. And here the director also inserts a refined cinematic quote, when Fatah sees on television an old film by Henri Verneuil, The Cow and the Prisoner, in which the great Fernandel plays a prisoner of war who also establishes an empathic relationship with the cow Margherita.

A film that also unhinges many clichés, starting with the impoverished nobleman that Fatah meets on his way and who teaches him to write love letters to his distant wife (because we know that the French know how to talk about love) and then discover that he is a lonely and depressed man whose depression will be cured by Fatah’s childhood joie de vivre. This is to say that not always where there is civilization and progress, technology and comfort, there is also inner well-being. And it is no coincidence that Fatah encounters a farmer protest that ends in revolt, to underline that often the European dream of so many immigrants then crashes into bitter and ferocious reality.

This fantastic journey is accompanied by a soundtrack with a gypsy rhythm, the work of the composer Ibrahim Maalouf, capable of immersing the viewer in a Balkan atmosphere that knows how to accompany the theme of the encounter between different cultures with refined mastery.

The dream to be realized

And finally, the film lightly investigates the theme of the dream to be realized: the possibility of believing in something, despite everything, and everyone tries in every way to dismantle that dream. After all, Fatah has always believed in that trip, in the possibility of leaving with its Jacqueline for Paris, of participating in that salon, and of winning that prize.
And all in all, that’s what we all want to believe. Director Mohamed Hamidi has done nothing but transpose on the screen, with delicacy and intelligent humor, a story that we all would like to hear.

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