Leonardo Lidi è un attore di teatro (tra le sue interpretazioni cito quella nello spettacolo Santa Estasi), ma anche di cinema (fra le sue interpretazioni ricordo quella in L’incredibile storia dell’Isola delle Rose), è anche un regista tra i più talentuosi della sua generazione che ha la particolarità di rimaneggiare / riadattare / rivitalizzare / stravolgere / spogliare / sottrarre / trasformare i testi del grande Teatro Classico.

Leonardo Lidi è un ragazzone, di quelli di una volta, la cui timidezza gli fa alzare gli occhi al cielo quando ti parla, come se volesse sfuggire allo sguardo di chi gli sta di fronte durante la conversazione.

Spesso offre la cena agli amici che vengono da lontano per vedere i suoi spettacoli. Spesso parla sotto voce. Spesso ti sorride. Ecco la nostra chiacchierata fatta da remoto, lui sul treno e io in Old Wild West dell’autogrill Milano Venezia.

Caro Leonardo Lidi, tu sei un attore, drammaturgo, regista, direttore artistico di una realtà storica come “Ginesio Fest”… se dovessi raccontare di te in terza persona, come ti racconteresti?
Temo tu abbia citato troppe categorie. Diciamo che mi chiamo Leonardo Lidi e sono un regista teatrale. Mi imbarazza chi si riempie la bocca nel parlare del proprio operato quindi eviterò di farlo. In questi 34 anni il teatro è stato il binario della mia vita, una storia d’amore. Quando vedo il mio amore trattato con superficialità e volgarità mi arrabbio. E questa rabbia genera spettacoli. Quando smetterò di arrabbiarmi smetterò anche con gli spettacoli. Ad oggi sono ancora furibondo. Nel tempo ho capito che era amore e non infatuazione. Nel 2013 ho preferito assistere all’Arlecchino di Latella al Teatro Asioli di Correggio piuttosto che vedere Barcellona – Milan di Champions. Per amor di cronaca va detto che quel Barcellona era imbattibile, ma da me proprio non me lo sarei mai aspettato. Continuo a scegliere la regia, anche davanti a proposte che non si possono rifiutare. Spero di non passare la vecchiaia immerso nel pentimento.                      

Leonardo Lidi: artista e direttore artistico

Che relazione c’è tra l’essere un’artista che scrive, che sta in scena, che dirige, e anche, essere un direttore artistico?
Essere un direttore artistico richiede una relazione soprattutto con il proprio essere spettatore. Chi non ha tempo di andare a teatro deve organizzarsi meglio l’agenda. Chi non ci va per disinteresse sta semplicemente rubando lo stipendio. Avere a disposizione una mappa dettagliata agevola le decisioni nel contesto dato. Sicuramente la regia e la centralità dell’attore compongono la natura del mio progetto. Vedo un teatro che produce drammaturgia contemporanea con costanza. Un teatro che si occupa dei vivi: i grandi classici presentati da registi impantanati nel presente e la nascita sistematica di nuove storie. Vedo un ponte da ricostruire tra cinema e teatro basato sulla ricerca della recitazione contemporanea. La scuola, in questo, avrà un ruolo fondamentale ed è il motivo per cui ho accettato la nomina di vicedirettore e coordinatore allo Stabile di Torino. Inoltre confido in una battaglia all’intrattenimento negli spazi pubblici e al teatro dell’istruzione. Il teatro non è la scuola, il teatro è la ricreazione.

Cosa ti spaventa di più del mondo del teatro?
Gli spettri.

E la direzione del GinesioFest?
San Ginesio non ha un teatro dopo il terremoto del 2016. La prima responsabilità è dunque portare il teatro ad una comunità che ne è priva; un luogo vergine che non può fare affidamento su un pregresso. Essendo una parentesi temporale, però, deve anche avere il coraggio delle domande. Un festival acquista significato se innesca un momento di discussione attorno alla forma. E’ il motivo per cui alle Biennali dove ho avuto l’onore di partecipare ho sempre portato spettacoli storti, tentativi. Se un festival diventa una sorta di rassegna di un teatro nazionale c’è un problema di semantica. Durante l’estate ci si chiede come andare avanti nell’inverno.

A San Ginesio quest’anno ci si interroga sulla funzione della maschera nel 2023. Se, nel mondo dell’immediatezza esperienziale – nel mondo dove ottieni like se pubblichi il volto dei tuoi figli e i necrologi dei tuoi cari – ha ancora senso esprimersi attraverso una maschera. Protezione o esposizione? Ho invitato gli artisti che hanno scelto prevalentemente questa forma per raccontare il presente e quindi Giuliana Musso, Roberto Latini, I Gordi, La Piccola Compagnia Dammacco, Francesco Mandelli con una riflessione sulla maschera comica e Filippo Timi. Inoltre avremo la compagnia Asterlizze di Alba Porto e Mauro Bernardi come esperimento di realtà virtuale attraverso visore, una maschera del futuro che tanto mi spaventa.

Cosa abbiamo fortunatamente lasciato nel teatro del passato?
Il passato va utilizzato come trampolino per il futuro, un sostegno che aiuta la spinta per il tuffo nel vuoto che richiede la creatività. Va preso il buono, “e a culo tutto il resto”. Inutile soffermarsi sul ‘900. Il nostro teatro non è spesso all’altezza del resto dell’Europa, chi dice il contrario mente o ha preso pochi aerei; c’è tanto da fare e bisogna essere affamati di presente. Lavorando ogni giorno con ragazzi tra i 18 e i 24 anni mi rendo conto che la grammatica su cui mi sono formato è morta e sepolta, che le battaglie che noi ipotizziamo loro le hanno già vinte. Ci sarà tanto bisogno dello spettacolo dal vivo nel futuro della società, un luogo che nasce nel rapporto tra corpi nello spazio in un mondo che sembra suggerire il contrario. Ne vedremo delle belle. Per risponderti dunque torno a Guccini: “Io dico Addio a chi si nasconde con protervia dietro a un dito, a chi non sceglie, non prende parte, non si sbilancia, o sceglie a caso per i tiramenti del momento curando però sempre di riempirsi la pancia”.

Sei diventato ciò che sognavi di diventare da ragazzo?
Sì. E non è stata proprio una passeggiata, per questo resto combattivo. Ma non mi aspettavo di raggiungere i “centotrenta chili” cantati in Maracaibo. 

Cosa abbiamo perso, purtroppo, del teatro del passato?
La centralità dell’artista nella società. O almeno il miraggio di questa ipotesi. Adesso la volgarità porta a considerare l’artista, e soprattutto il teatrante, come soggetto parassita e non come investimento politico culturale. Ogni tanto sembra che non sappiano proprio cosa farsene di noi. Durante la pandemia ho sperato nelle domande giuste, nel paragone con il sistema tedesco e quello francese, e invece ci siamo persi in dodicimila tavole rotonde dove in molti hanno sfogato frustrazioni personali. Dovremmo andare orgogliosi dei nostri talenti, fare il tifo per gli artisti capaci di visione, e invece Latella non ha un teatro –  ti sembra normale?

Una preoccupazione di Leonardo Lidi nel ruolo di direttore artistico?
Non farmi muovere dal gusto ma dall’obiettivo politico. Non tralasciare il divertimento. Non essere innocuo.

Che sensazioni hai quando scrivi e adatti un testo?
Cerco l’empatia con la pagina, riproduco un dialogo di fantasia con chi scrive, sono i momenti più belli. Non sempre ho necessità di adattare, con Cechov non tocco una battuta, con Molière voglio intervenire a gamba tesa. Rido spesso nelle tragedie, quando rido solitamente funziona.

Cosa vuol dire essere referente di un pubblico?
Il lavoro lo svolgi appieno non se soddisfi le esigenze del pubblico ma se cerchi, anche contro le volontà collettive, di condividere un viaggio con sincerità. Bisogna avere l’entusiasmo di una vacanza in macchina verso mete sconosciute. Tu ci devi mettere il mezzo, la benzina e la voglia di far sì che tutto vada alla grande. Qualcuno che canticchierà con te lo troverai sempre.

Qual è il tuo desiderio più grande, che non hai mai confessato?
Intonare “Sapore di Sale” con Adriano Galliani sul lungomare di Forte dei Marmi.

Come ti poni con le diverse generazioni di attori?
Riprendo una tua domanda precedente. Tra le cose che abbiamo lasciato indietro forse c’è la modalità aggressiva nei confronti degli attori. Il regista che urla, specialmente con i giovani, è anacronistico. Gli attori sono le pietre preziose del teatro italiano, sono da proteggere e talvolta da scoprire. Io decido di lavorare con persone intelligenti e sensibili, che hanno un desiderio collettivo superiore ad un desiderio personale. Quindi a tutte le età e a tutte le generazioni riservo rispetto, ammirazione e gratitudine. La carta d’identità non è mai un tema, non voglio che lo sia per me e non mi permetterei mai di anteporla ad una relazione professionale.

Chi è oggi il punto di riferimento di Leonardo Lidi?
C’è un gruppo di direttori artistici che a mio avviso sta operando molto bene in questo momento. Con molti di loro ho avuto la fortuna di collaborare, conosco il loro impegno e il loro costruire nonostante le dinamiche spesso folli e sfavorevoli dettate dalla politica. Spero di diventare bravo come loro. Artisticamente il mio riferimento invece resta Enzo Jannacci. “Chi vota scheda bianca per non sporcare, oh yeah”.

Il teatro e i giovani:
facciamo come a Londra

Cosa si potrebbe fare, secondo te, per portare i giovani a teatro?
Gli spettacoli sono l’unico cavallo di Troia che il teatro ha a disposizione, ed è giusto che sia così. Quando si programma uno spettacolo indegno con la scusa del pubblico si sta distruggendo in prospettiva. Nonostante gli applausi registrati in sala. Per questo oltre alle produzioni bisogna assolutamente soffermarsi sulle ospitalità. Bisogna investire in maniera specifica sul settore infanzia e adolescenza partendo da un rapporto stretto con i docenti. La prima volta che sono entrato in un teatro dove recitavano professionisti ho visto un Pirandello “per le scuole”; prima di allora avevo sofferto così tanto solo dal dentista. Bisogna dividere per fasce d’età più specifiche, consapevoli che un bambino di 8 e un ragazzino di 10 hanno immaginari differenti. Un bambino che chiede ai suoi genitori di poter tornare a teatro dopo l’esperienza con la scuola è un obiettivo, anche di mercato. A Londra i bambini vanno a teatro una volta al mese, idem i ragazzi; il teatro entra nel quotidiano durante il periodo scolastico per trasformarsi in richiesta di mercato nella vita adulta. Questo genera sistema. Da noi c’è ancora chi pensa a creare circoli chiusi. E a fare i numeri con i volti della tv. Ma non ci vuole Nostradamus per capire che questa dinamica non potrà reggere ancora a lungo.

In cosa crede Leonardo Lidi?
Facile, nel teatro.

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