Finalmente si parla di vittimizzazione secondaria dopo secoli di attuazione sistematica di questa pratica. In che consiste? E’ quella pratica comportamentale, usata da sempre, secondo la quale le donne che denunciano violenza diventano automaticamente responsabili dei fatti, a tal punto che il fatto denunciato (lo stupro, l’aggressione, la violenza) passa in secondo piano.

A spiegarlo è la giudice Paola di Nicola Travaglini a Radio Capital nella trasmissione The Breakfast Club di ieri mattina, riascoltabile in questo podcast. La vittimizzazione secondaria è un processo attraverso il quale si sposta l’attenzione dal fatto denunciato (lo stupro) alla personalità della vittima che denuncia: quali sono le sue caratteristiche, che tipo di donna è, che stile di vita conduce, come si veste, chi frequenta, che abitudini ha.

La vittimizzazione secondaria è un comportamento culturale di cui la nostra società è imbevuta completamente, a tal punto che risulta quasi normale questo tipo di ragionamento quando si valuta un fatto di cronaca che coinvolge una donna abusata o stuprata.

Eppure il solo caso in cui si mette in dubbio la persona che denuncia è proprio quando si tratta di violenza sessuale. In qualsiasi altro tipo di denuncia (di furto, di rapina, di omicidio) non si mette mai in dubbio la buona fede del denunciante, anche perché se denuncia il falso può essere accusato di reato di calunnia.

La vittimizzazione secondaria e l’Europa

Eppure è da molti anni che l’Unione Europea lavora su questo tema per contrastare la vittimizzazione secondaria della donna. Sono state emanate ben 2 convenzioni internazionali sull’argomento: in particolare la Convenzione di Istanbul che all’articolo 18 fa divieto agli Stati di vittimizzare le donne che denunciano violenza, e poi la Direttiva Vittime con cui dal 2012 l’Unione Europea obbliga tutti gli Stati a non replicare questa modalità comportamentale.

Tuttavia l’Italia resta culturalmente molto indietro su questo tema. Il problema della vittimizzazione secondaria nel nostro Paese è già stato più volte oggetto di attenzione da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: uno degli ultimi casi è stato quello della sentenza del 27 maggio 2021 (caso 5671/16) che ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 8 della Convenzione EDU, ovvero per mancata protezione dalla vittimizzazione secondaria di una donna che aveva denunciato uno stupro di gruppo.

Il caso in questione risale al 2015 quando la Corte di Appello di Firenze aveva assolto alcuni giovani imputati dall’imputazione per il reato di cui all’art. 609-octies del codice penale sulla violenza di gruppo giustificando la loro violenza con la bisessualità della denunciante, la sua difficile situazione familiare, le sue molteplici relazioni sentimentali e la sua partecipazione ad un cortometraggio con scene di sesso e violenza.

Insomma se a una donna piace fare sesso o se la sua vita quotidiana mostra caratteristiche di disinibizione, allora è ella stessa causa della violenza subita.

La vittimizzazione secondaria induce molto spesso la donna al silenzio.
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Ed è proprio il timore della vittimizzazione secondaria che induce molte donne a non denunciare affatto, oppure a denunciare dopo molto tempo, quando sono riuscite, magari con l’aiuto di amici, parenti, avvocati o psicologi, a prendere consapevolezza dei propri diritti e a trovare il coraggio di parlare e di affrontare quella gogna a cui saranno inevitabilmente esposte.

Proprio come sta succedendo alla ragazza che ha osato denunciare il figlio del presidente del Senato, Leonardo Apache La Russa, per violenza sessuale, ragazza di cui sui media e sui social si è cercato di evidenziare presunte colpe facendo riferimento all’assunzione di droghe o alla distanza temporale (40 giorni) tra il fatto e la denuncia.

E qui si arriva al paradosso per il quale se una donna è drogata (e quindi non è in sé, non è consapevole di ciò che sta facendo) non è per questo considerata ancora più fragile e indifesa (ipotizzando quindi un aggravante per chi ne abusa) ma, al contrario, maggiormente responsabile della violenza subita. E i 40 giorni dal presunto reato suonano subito ambigui: “perché ci ha messo tanto a denunciare?”.

Il machismo della nostra società

Siamo ancora lontani anni luce da una piena presa di distanza da questi pensieri machisti che dominano l’opinione pubblica. Il machismo pervade ancora ampi strati della nostra società, attraversa la cultura familiare di ogni ceto sociale in modo trasversale, inneggiando alla superiorità sessuale del maschio, al culto della forza, all’arroganza, alla violenza come naturale espressione della virilità.

E la stessa scelta del presidente del Senato Ignazio la Russa di dare ai suoi figli tre nomi di condottieri nativi americani (Geronimo, Cochis e Apache) è figlia di questo esasperato machismo: quei nomi evocano guerrieri appartenenti ad una popolazione nomade dedita alla caccia, vestiti di pelle di daino, asciutti e muscolosi, selvaggi e dal piglio aggressivo.

Naturalmente questo è uno stereotipo che banalizza e semplifica la ricca e variegata cultura degli indiani americani, ma corrisponde alla classica immagine dell’uomo forte al quale la donna deve soggiacere: l’uomo che non deve chiedere MAI.

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