Non è possibile, e non sarebbe giusto, definire il talento di Renato Sarti in un unico ruolo artistico del Teatro italiano. Nell’inchiesta che sto realizzando, con i vari operatori e le varie operatrici culturali milanesi, Renato è stato contattato in qualità di Direttore Artistico del Teatro della Coperativa ma è anche: un attore, un drammaturgo, un regista (come leggerete dalle sue risposte) un felice nonno di quattro nipotini ed è l’unico autore italiano vivente che possa vantarsi di essere stato messo in scena da Giorgio Strehler.

Il Teatro che dirige fin da subito si è distinto per essere un luogo in cui le storie raccontano di emarginati, di lavoratrici e lavoratori delle fabbriche, della gente di quel quartire milanese nel quale c’è stata un’importante partecipazione alla Resistenza, della politica che ha lasciato sporcizia e mistero, di persone senza diritti e senza possibili redenzioni sociali. Diverse volte ci siamo parlati, e ad ogni volta è stato un piacere scoprire un uomo che ama il teatro.

Renato Sarti, cosa significa per una comunità non poter avere un servizio pubblico come il Teatro?
Un luogo di confronto, di partecipazione e di crescita comune, emotiva e politica, e anche, perché no, di svago e intrattenimento. Molti si scandalizzarono quando Giuseppe Conte usò uno di questi due termini e non capisco proprio perché. Ci sono migliaia di modi di fare teatro, tutti legittimi e quello dell’intrattenimento (o comico) non è meno importante e neanche meno nobile.

Cosa manca in Italia affinché la Cultura venga considerata un bene primario di ogni cittadino/a?
L’Italia vanta un patrimonio culturale e artistico che ci è invidiato in tutto il mondo. Quindi, innanzitutto, meriterebbe che i finanziamenti… anzi, gli investimenti in cultura – pubblici e privati – fossero più cospicui e più allineati rispetto agli altri paesi europei che non possono vantare un patrimonio di arte e cultura come il nostro. Credo che il teatro dovrebbe essere più sanamente popolare, più vicino ai problemi di tutti i giorni delle persone. In certi casi ho la sensazione che il così detto “teatro ufficiale” sia un poco autoreferenziale e destinato a una cerchia specializzata e/o raffinata. Con quel tantinello di puzza sotto il naso che non guasta.

Ad un artista come te, ricominciare a calcare il palcoscenico dopo questa chiusura, cosa comporta, cosa senti quando sei in scena? 
Anche se sono poco incline alla commozione quando ho ripreso a salire sul palco… beh avevo un groppo in gola ed è stato difficile proseguire. La ripartenza significa tante cose, personali e no. Non solo riprendere a fare il proprio mestiere (bellissimo) ma significa anche sentire che riprende la vita. Poter stare con i propri cari, i propri amici. Comprendere quanto certi gesti come l’abbracciarsi e darsi la mano – di cui forse in precedenza abbiamo abusato, svuotandoli del loro significato più profondo – fossero importanti.  E tornare in scena significa anche e soprattutto aprire una riflessione. Questo gran brutto momento del covid ci servirà da lezione? Io non credo. Sono molto pessimista. Le pestilenze sono state il rintocco che ha scandito i grandi mutamenti della storia della umanità. Si pensi al Rinascimento. Si pensi che la lotta al vaiolo, che ha coinvolto da Caterina di Russia a Maria Teresa d’Austria, da Federico II di Prussia a Luigi XVI, è stato il primo gradino verso la costruzione dell’Unione Europea. Questa terribile esperienza farà rallentare la folle corsa del capitalismo canaglia, del consumismo, dello spreco? Farà sparire le orribili disuguaglianze? In una larghissima parte del pianeta i bambini muoiono come mosche di fame, di stenti, di malattie, per la mancanza di farmaci e di igiene minima, mentre da noi tutto si spreca e tutto deve essere più lustro del lustro

Foto Marina Alessi

Non bisogna solo trovare energie alternative per produrre automobili più ecologiche. Bisogna costruirne meno e usare di più i mezzi pubblici, le bici e andare a piedi.  Anche perché, come per la corsa al petrolio, non facciamoci illusioni, per conquistare i paesi ricchi delle materie prime necessarie per una riconversione energetica –  batterie e simili – si scateneranno nuovi conflitti, nuove tensioni, antichi sfruttamenti (vedi i bambini nelle miniere di cobalto in Congo) che muteranno lo scacchiere geo-politico internazionale, ma non lo schifo che ci sta dietro.

Le risorse del pianeta – allo stremo – non sono infinite e non riescono a stare dietro alla ingordigia umana. Il peso dei manufatti e delle costruzioni umane (porti, città, macchine, case, strade, plastica etc) ormai supera quello della biomassa del creato, animali, alberi e vegetazione messi insieme. Una folle corsa destinata a impastarsi contro un muro, con le grandi organizzazioni mondiali che stanno a guardare, o quasi. E l’internazionalismo dov’è finito? Ognuno guarda al proprio orticello…

Cosa credi che bisognerebbe fare per far tornare il pubblico in sala?
Quello che ho detto alla prima domanda. Riavvicinarsi alla gente, alla realtà, alla vita che scorre al di fuori delle torri d’avorio. Quando durante il lockdown, a differenza delle chiese, degli ipermercati e addirittura dei parrucchieri, hanno chiuso i teatri, la gente non è scesa in piazza con le fiaccole e i forconi.  E su questo ci sarebbe da riflettere. O no?

Cosa vorrebbe lasciare Renato Sarti ai suoi nipoti, per il loro futuro?
Che detestassero le ingiustizie e l’egoismo e avessero un profondo senso di responsabilità nei confronti degli altri e per quella meraviglia che sono il mondo, la vita, la natura. Sapere che la felicità degli altri spinge la tua all’infinito.

Cosa vorresti vedere a teatro adesso che abbiamo riaperto?
Spettacoli che facciano commuovere, ridere e contemporaneamente riflettere. 

Quand’è l’ultima volta che ti sei commosso?
Avendo quattro nipotini, tendo a commuovermi sempre o quasi. Mi fanno ridere da buttarsi per terra e allo stesso tempo hanno delle tenerezze e degli slanci di affetto che pizzicano il cuore e inumidiscono gli occhi. Con le loro invenzioni imprevedibili, piene di fantasia, fanno eccellente teatro…  

Cosa significa per Renato Sarti lottare per il bene comune?
Assunzione di responsabilità verso gli altri in qualsiasi settore uno lavori. Avere, a modo nostro, nel nostro piccolo, un impegno politico. Una volta che la politica ti entra nel sangue è una specie di droga.
P.S. a questo proposito detesto chi afferma che i politici sono tutti uguali (che ricorda l’orribile idea dell’uomo qualunque di Guglielmo Giannini) e quelli che dicono: “Io non mi occupo di politica”. Spesso, dietro a questi, si nascondono i reazionari, se non fascisti, peggiori.

Questo tempo di chiusura ci ha fatto capire che del teatro si può fare a meno! Quanto è vera questa affermazione?
Ripeto sempre la risposta che diede la mamma di Bebo Storti quando le chiesi perché andava a teatro: “Come mangio, bevo, respiro, così vado a teatro”. Dovrebbe essere così, anche se nell’ultimo cinquantennio (prima e dopo il berlusconismo, social e non) la concorrenza è diventata molto agguerrita, televisione in testa.

Quand’è che Renato Sarti ha sorriso l’ultima volta?
Ma tutti i giorni. Sempre per i nipotini, ma anche in altre circostanze. Pur rischiando qualche scivolone, io stesso cerco di ridere. Di me e degli altri. Ridere è fondamentale.  Fortunatamente la mia educazione si è formata a furia di witz, termine di origine tedesca – tanto caro a Karl Krauss – che è qualcosa di diverso della battuta comica. I witz, che spesso sono più taglienti, a Trieste imperano. A Strehler piaceva molto far scherzi, battute e battutine, come un bambino. Con lui parlavo esclusivamente in dialetto e ne sparava certe…

Chi dovrebbero essere le persone che gestiranno i teatri di domani?
Le nuove generazioni. Qualcuno afferma che non sono preparati, altri che siamo noi nonni a non lasciare spazio. Non so chi abbia più ragione anche perché mi sembrano discussioni un po’ oziose. È vero che spesso nei ruoli cardine l’età è alta. Ma è altrettanto vero che nel nostro Paese, a causa della bassissima natività e della longevità la media sia molto più alta di tante altre nazioni. Ma comunque non sono proprio del tutto assenti i giovani nei ruoli di responsabilità di teatri, festival premi, circuiti. Vedi il Piccolo Teatro, vedi Mittelfest…

Per puntare sui giovani artisti, ci vuole più amore o più coraggio?
Dipende da cosa vuoi ottenere. Forse né amore, né coraggio ma una voglia, sentita e vissuta come necessità, di trasmettere il sapere che tu hai avuto la fortuna – e sottolineo la parola fortuna – di acquisire. Se resta solo tua è sterilità. Cosa fai? Te la porti nella tomba?

Renato Sarti ha realizzato i sogni che aveva da ragazzo? E i sogni di adesso?
Da ragazzo volevo diventare il ciclista Charlie Gaulle o il centravanti José Altafini. Figurati. Il teatro è arrivato parecchio dopo. Molto casualmente. I sogni di oggi, a parte quelli privati e personali? Che le nuove generazioni, i ragazzi abbiano il senso della responsabilità verso gli altri, migliorino la qualità di vita nel nostro paese, grazie alla convivenza civile e alla partecipazione. La grande rivoluzione della mia generazione è stata l’istruzione di massa. I nostri genitori si sono massacrati, hanno fatto sacrifici enormi per farci studiare.  E di questo dobbiamo essere ancora oggi riconoscenti e dobbiamo anche far comprenderne l’importanza di questa conquista perché mi illudo (almeno a me è successo così) che la cultura, l’arte e l’istruzione possano essere uno dei pochi antidoti a nuove e molto preoccupanti rigurgiti e fenomeni di carattere razzista, xenofobo, populista e fascista.

L’Italia fascista ha apposto la sua firma ad una delle pagine più vergognose della storia: il delirio della razza pura e lo sterminio dei diversi. Anche noi italiani, caricavamo i treni di persone ritenute Untermenschen, per mandarli nelle camere a gas e nei forni crematori dei lager. Non dobbiamo mai dimenticarlo e soprattutto abbiamo il dovere di fare in modo che non sia dimenticato. In questo senso il teatro può e deve fungere da sentinella. Mi sono sempre impegnato con il mio teatro per cercare di coltivare la memoria storica. Mi onora di collaborare con l’Istituto Parri e soprattutto, e l’ANPI (associazione dei partigiani) e soprattutto di essere parte attiva da più di venticinque anni dell’ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati). Io non ho mai studiato la seconda Guerra Mondiale. A Trieste abitavo a un chilometro dalla Risiera di San Sabba (l’unico lager in Italia con forno crematorio durante l’occupazione nazista) e fino a 16, 17 anni non ne ho saputo l’esistenza. Un vuoto che si è trasformato in un cruccio, una inadeguatezza e che ha lasciato un segno dentro. Io e la mia generazione siamo stati defraudati scientemente. Ci hanno rubato di una delle cose più importanti per la crescita e la formazione per un buon cittadino: la conoscenza del proprio passato. E il mio sogno è che questo furto non avvenga mai più.
Il Fascismo ha posto in essere le basi per l’antifascismo, che è stato il punto di partenza per molte delle menti migliori del nostro dopoguerra. Tanto per fare solo pochissimi nomi Gillo Pontecorvo, Franco Basaglia (arrestato a Venezia per sei mesi), Danilo Dolci (arrestato a Genova nel peggior luogo di tortura di Genova, la Casa dello studente), le due Tine, Anselmi e Merlin. Lo stesso Strehler (che, se lo avessero preso, i fascisti lo avrebbero fucilato). Sono questi personaggi che hanno cercato di riscattare e bonificare una nazione che era caduta nel baratro della dittatura.

In foto: Giulia Lazzarini e Renato Sarti

Cosa pensa Renato Sarti quando è seduto in platea, poco prima di vedere uno spettacolo?
Cerco di non leggere niente o quasi niente dello spettacolo prima di entrare nella sala perché sono curioso e spero sempre di essere sorpreso. Diceva Peter Brook, che bisogna fare in modo che allo spettatore, comodamente seduto, si cerchi di fornire qualcosa che non si attende.

Per fare il lavoro che hai fatto in questi anni, hai avuto bisogno di più amore o di coraggio?
Quando ho aperto il Teatro della Cooperativa (che, dopo la formazione con Strehler e all’Elfo, è stata la mia tappa più importane dal punto di vista del lavoro) avevo cinquanta anni ma mi sentivo molto pimpante, pieno di entusiasmo, voglia… anzi fame di fare teatro. Per il lavoro che ho svolto da allora è stata fondamentale una forma particolare di coraggio, che, con qualche rischio, rende il coraggio ancora più efficace: l’incoscienza giovanile. Nonostante qualche rammarico e nella convinzione di aver subito più di qualche torto (non posso non rimarcare che dal punto di vista economico non ho mai avuto a disposizione una vera produzione, come tanti miei colleghi: sempre a far le nozze con i fichi secchi)… l’incoscienza è stata la componente fondamentale. Un’altra componente importante è stato l’impegno (politico e sociale), derivato anche dalla mia passione per la storia e dall’influenza che ha avuto la storia del quartiere in cui sono capitato, il battagliero quartiere di Niguarda. Ecco: queste sono state le due componenti che mi hanno fatto trotterellare e che spero mi possano far trotterellare ancora qualche annetto.

P.S. Per ovvi problemi di spazio non ho trattano un altro aspetto del mio lavoro, quello del teatro comico, che – oltre che molto più difficile – spesso è anche molto snobbato dal teatro ufficiale. Ma ne parleremo nella prossima puntata.

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