La prima volta che ho incontrato Giovanni Ortoleva è stato fuori da un teatro milanese, a vedere uno spettacolo in cui recitavo. Ci si ritrova spesso all’uscita di uno spettacolo, tra amici e amiche di Teatro, e quella sera un ragazzo molto timido, con lo sguardo rivolto verso terra più che verso altri occhi, impacciato nei modi, rossiccio di capelli e vestito di verde scuro, a stento disse una parola.

Giovanni Ortoleva, giovane e promettente regista

Sapevo che Giovanni era un giovane e promettente regista ma la sua gentile presenza lo faceva sembrare uno spettatore più che un addetto ai lavori. In tutte le volte successive che ci siamo incontrati, aiutati oramai dalla frequentazione, non ha modificato il suo modo di stare con gli altri, è sempre rimasto quel bravo ragazzo che parla poco e piano ma nonostante la sua (iniziale) timidezza di personalità ne ha, e ha le idee molto chiare, che lo accreditano tra i giovani registi emergenti sui quali puntare per il futuro.

Eppure lui è molto fumantino, chi lo conosce bene lo descrive più come un diavoletto e non un angioletto… Il suo modo attuale di fare regia è creare, consegnare, un mondo dentro al quale le storie e gli interpreti possano vivere indipendentemente da lui e dal suo pensiero registico, come se fossero i suoi attori e le sue attrici ad aprire le porte del suo mondo per chi va a vedere un suo lavoro.

Questa sembra una bella cosa, perché è come se fosse un artigiano che crea un’opera con l’aiuto di altri artigiani… e quand’è così l’opera che si realizza è sempre di grande valore!

Se dovessi raccontare di te in terza persona, come ti racconteresti?
Devo proprio?

Che significa, per te, essere un regista?
Concertare il lavoro di un gruppo di persone. Avere le idee chiare, così da poter delegare. Dialogare. Impuntarsi, ma solo quando è strettamente necessario. Ascoltare. Avere pazienza. Sdrammatizzare. Rimbrottare. Esigere. Dare. E, prima della prima, ringraziare e sparire

Cosa ti spaventa, di più, del mondo del Teatro?
Chi ci lavora senza amarlo.

Cosa ti fa “perdere la testa” (in positivo e anche negativamente)?
Bella domanda, per uno dal carattere notoriamente fumino… Negativamente, attendere l’autobus. Positivamente, certa musica. In entrambi i sensi, le cose che tornano ciclicamente.

Quali difficoltà trovi, se ce ne hai, nella direzione degli attori/trici?
Originariamente, c’era un grande imbarazzo derivante dal fatto che non ho studiato come attore, e questo mi faceva sentire in difetto. Poi ho cominciato a fregarmene, a fidarmi dei miei strumenti e del mio orecchio, e adesso il lavoro con gli attori è la mia parte preferita. A volte faccio fatica a dire quello che voglio, ad essere semplice. La prendo larga, come nel rispondere a questa domanda. È una forma di timidezza, che nascondo ma ho, grandissima.

Il teatro, la regia, il pubblico

Quali è la parte più bella del tuo lavoro di regista?
Il lavoro con gli attori, appunto. Ma anche il dialogo con tutte le figure che creano lo spettacolo insieme a me; il “tavolino” di inizio spettacolo, quando ci si trova tutti insieme e si parla di quello che sarà; quando si ha la consapevolezza di avere scoperto qualcosa di nuovo, in sala, insieme; quando improvvisamente si ride di qualcosa che è appena successo tanto da dover fermare le prove… E darsi i soprannomi all’interno del gruppo. Potrebbe sembrare bullismo, ma è un processo (semi)democratico a cui contribuiscono tutti: negli anni sono stati coniati “Sveva Trepellicce”, “Gerry Malessere”, “Martina Ottocento”, “Peppe Organello” e tanti altri. Il più bello che mi è stato dato è “Pippo Menzogna”, ma anche “Gigi Chioma” non era male. È un’usanza che ho preso da Edoardo Sorgente (“Tonino Disponibile”).

Che tipo di spettatore sei, quando vai a Teatro?
Ero terribile. Fino ai vent’anni andavo costantemente a teatro e odiavo tutto quello che vedevo. Poi ho iniziato a trovare una strada di cose che mi interessavano, ma continuavo a sbuffare e uscire dagli spettacoli che non mi piacevano, a volte anche dopo cinque minuti. Adesso sono diventato più paziente, ma quando qualcosa mi fa imbestialire mi ritrovo con le mani nei capelli senza neanche accorgermene.

Cosa ti diverte di più del racconto che fanno di te gli amici/che… oppure le persone che non conosci ma delle quali percepisci cosa pensano di te?
Credo che mi sorprenda il fatto di essere sempre descritto come una persona molto preparata, un grande studioso. Io invece ho sempre la convinzione di non essere preparato a sufficienza. E poi questo fatto di essere descritto come una persona molto seria… Mi fa molto ridere.

Cosa abbiamo (fortunatamente) lasciato nel Teatro del passato?
Arthur Miller, ma ogni tanto prova a tornare.

Cosa stiamo abbiamo (purtroppo) perso del Teatro del passato?
Tantissima roba, ma ce la riprenderemo.

Sei diventato ciò che sognavi di diventare da bambino?
Da bambino ero convinto che non sarei mai diventato grande… Non so perché, ero convinto che non avrei superato i 30 anni. Poi è successo. Nelle poche fantasie che avevo sul futuro però dirigevo film e/o scrivevo libri, quindi non sono andato lontano (un corto l’ho pure diretto). A un certo punto credo volessi diventare poliziotto, ma questa è un’altra storia.

Qual è la maggior preoccupazione quando inizi un lavoro?
Non sono mai preoccupato: sono sempre convinto che sarà un tale insuccesso che la mia carriera finirà con quel lavoro. Dico davvero, purtroppo. Pensare che l’apocalisse sia vicina è un modo per non occuparsi dei problemi effettivi, quindi in un certo senso è un modo di non pensare e stare tranquillo. Un modo molto contorto, sicuramente.

Cosa pensi del “Pubblico”?
Che sia più intelligente di quanto pensino gli addetti ai lavori. Il mio obiettivo è da sempre fare spettacoli trasversali, che possano incontrare un pubblico ampio. Questo non significa, in nessun modo, rinunciare alla complessità, ma creare degli spettacoli “multistrato”, che lavorano su piani diversi. Spettacoli che non devi seguire dalla prima parola all’ultima per averne una comprensione. Sembra l’invenzione dell’acqua calda, invece trova ancora resistenze. Una sera un operatore mi disse che il mio spettacolo era bello ma criptico, inadatto a chi non aveva studiato i testi originali. Quella stessa mattina avevamo avuto una matinée con due classi delle superiori durante la quale non era volata una mosca; c’era poi stato un incontro post-spettacolo

e i ragazzi spettatori avevano fatto delle domande belle, intelligenti, mostrando di aver seguito e capito benissimo. Trovo la bassa considerazione del “grande pubblico” odiosa e classista. Devo aggiungere poi che negli ultimi mesi noto con grande gioia un ritorno in sala. Non so se sia una fase, un momento di passaggio o cosa, ma quando un regista di trentadue anni si ritrova settecento persone in sala la Domenica pomeriggio qualche domanda se la fa. Ho anche l’impressione di stare incontrando un pubblico diverso da quello di qualche anno fa, molto più “variegato”, anche nelle sale meno grandi. Questa è una cosa che mi riempie di gioia.

Chi è il tuo punto di riferimento, oggi (cinema teatro musica arte vita privata…)?
Mia madre Michela.

Cos’è che ti fa scoraggiare?
La competizione; non me ne frega niente, e quando la sento nell’aria mi passa la voglia di vivere. E la mancanza di cura, che è il pericolo più grande nel nostro ambiente. Ma mi fa incazzare, più che scoraggiarmi.

L’ultima volta che ti sei commosso per un’opera d’arte (cinema teatro musica musei)
Perdonate l’autoreferenzialità: lo scorso weekend, guardando Marco Cacciola e Christian La Rosa dialogare nella scena finale di Dramma Industriale di Riccardo Favaro al Teatro di Rifredi. E questo istante, in cui ha iniziato a suonare nel mio impianto Cenote di Perfume Genius, una delle mie canzoni preferite.

In cosa credi?
Molto naif, ma credo nell’amore per il prossimo.

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