Per noi Italiani, l’odio è l’affetto principe, è la passione compagna, anzi base a tutte le altre, tanto che lo stesso amore non è, per così dire, che una controprova dell’odio. Vittorio Bersezio

L’odio è parente stretto del suo opposto, staziona nella stessa area della corteccia frontale in cui trova accoglienza l’amore. L’aveva prefigurato già Catullo, col suo fulminante «odi et amo» (odio e amo), anticipando di secoli le scoperte della moderna neurologia.

Oggi l’odio alligna soprattutto in rete, in particolare fra le comunità che animano Facebook, il social network più globale ma insieme più provinciale, familistico, autoreferenziale del pianeta. Generatore di comportamenti faziosi, di reazioni violente, di aggregazioni tribali che azzerano o indeboliscono il senso di coesione sociale dei cittadini di una nazione, Facebook è il luogo virtuale di massima proliferazione dell’hate speech. Molti, che al di fuori del contesto di un ambiente comunitario on line non denigrerebbero nessuno, non userebbero toni violenti per replicare a un commento, non ricorrerebbero mai al turpiloquio per rivolgersi a un interlocutore, si trasformano in odiatori seriali, nel magico mondo di Internet, per il fatto di percepirsi invisibili. È come se si sentissero protetti dalle quattro mura delle loro abitazioni, da un anonimato che li fa sentire a casa loro perfino in una comunità allargata come Facebook. Le tribù on line cui afferiscono, un po’ rinviano al sentimento di appartenenza dell’individuo alto-medievale al gruppo familiare (in senso stretto), un po’ ricordano le corporazioni, le confraternite, i comuni rurali (regole), e altre forme di aggregazione, che cementavano i loro membri, durante il Medioevo, in un saldo vincolo di solidarietà e vicendevole sostegno. Anche quando l’anonimato non si dà, quando non ci si può nascondere dietro un nome fittizio perché i sistemi d’iscrizione a un gruppo costringono a dichiarare le proprie generalità, c’è chi si sente spalleggiato dai suoi complici, i membri della sua comunità virtuale, se fa qualcosa di cui non può andare fiero.

Motore dell’odio, dei ripetuti atti a distanza di una violenza verbale che ha superato da tempo il livello di guardia, è spesso la paura dell’altro, in quanto percepito come estraneo o sconosciuto. Alla base dei due gallicismi ostile e ostilità – e di un terzo uscito dall’uso: oste, per dire esercito – c’è il latino hostis. La parola indicò dapprima un peregrinus (forestiero, straniero), e poi un avversario o un nemico. Era all’inizio un pellegrino anche un parente stretto di hostis, quell’hospes che già nell’antica lingua di Roma, e secoli dopo in italiano, sarebbe diventato un ospite (o un convitato).

Traiamo una volta tanto esempio da un passato che avvertiamo sempre più remoto e avulso da noi. Trasformiamo in un ospite, con l’aiuto dell’etimologia, il nemico annidato in ostile. Convertiamo, procedendo a ritroso, l’ostilità in ospitalità.

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