A tredici anni mi sentivo goffa, a quindici troppo formosa, a diciassette in una criptocompetizione ad opera dei miei compagni di scuola sull’avvenenza delle femmine, scoprii di essere stata nominata per un buon posto in classifica soltanto nelle sottosezioni tette gambe. Per capelli occhi e naso non entrai neanche fra le prime cinque. L’intelligenza non faceva punto. Simpatia zero: ero sempre arrabbiata.

A 21 anni iniziai a sentirmi vecchia: non ne avevo più 18. La faccenda si aggravò intorno ai 30. A 35 convocai il mio esterrefatto compagno per avvisarlo che era iniziato il declino. A quarant’anni la vista di quei rigonfiamenti dalle parti degli occhi che vanno sotto il nome di borse mi suscitò un orrore tale da impormi gli occhiali da sole anche nelle stanze chiuse: occhi di cane triste, dissi.

Poi: sono entrata nella fase del crollo dei lineamenti. Le prime rughe, intorno ai 45, le chiamavo per nome. Massima, minima. Erano due. Non me ne crucciavo troppo: quando ti senti già vecchia a 21 anni, a 45 sei un atleta del rimpianto. Reggi la nostalgia come i forti bevitori reggono l’alcool. Sei sempre un po’ brilla. Sbronza mai.

Quando ho sentito il soffio della cinquantina, ero già abilitata a ridere di me, delle altre. Certo, che avrei voluto avere ancora quei 35 anni che mi sembravano la fine della corsa. Avrei potuto dire, come avevo sempre detto, “sono una vecchia scarpa”, ma tutti avrebbero riso. Avrei voluto che tutti ridessero. Non rideva più nessuno. Assentivano gravi.

A 50 anni sei una vecchia scarpa? La domanda riceveva risposte beneducate. Ma no, figurati, sei uno splendore, sei bella dentro, la tua anima è smagliante, sei perfettamente in forma, sei bionica… Le mie coetanee, anno più anno meno, bugia più bugia meno, si dividevano equamente fra tre categorie: le depresse, le liftate e le bugiarde.

Le depresse collassavano sotto il peso della rinuncia. Al muto grido di “tanto ormai” ingurgitavano tutto il cibo grasso rimosso negli anni della guerra alla cellulite, si attaccavano a tutti i cocktail contingentati per non mandare in vacca il punto vita, si chiudevano in casa, si abboffavano di maldicenze, torturavano le figlie.

Le liftate si pavoneggiavano smunte e finte, tutte rigorosamente uguali le une alle altre, con fervidi sguardi stupiti, zigomi gonfi, labbra indecenti e i capelli ben incollati a occultare le cicatrici.

Le bugiarde, accuratamente, mentivano: il problema di invecchiare non esiste, dicevano, per me l’età non è un problema.

Le mie poche amiche, restavano al naturale, e riflettevano sul passaggio, come me, con me. Meste, ma ben decise a riderci sopra. Ancora adesso, che ronziamo dalle parti della settantina, ci piace elencare crolli e vertigini, disputarci l’un l’altra il Premio Racchia dell’anno, ridere di noi e delle altre, continuiamo scrupolosamente con le creme, crediamo nelle erbe e nei frappè di omega tre, ma senza ansia, senza vergogna, senza prenderci sul serio.

Sul tema consiglio la lettura o rilettura di La donna intera di Germain Greer. Come film, trovabile facilmente in rete, La Morte ti fa bella di Robert Zemeckis. Un classico della commedia surreale.

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