Era un pomeriggio di sole.

Avevo preso la pettorina, non so perché. Non te la metto mai. La tua pettorina, quella militare, quella che non faceva pensare a nessuno che fossi un cane femmina. Un pastore tedesco femmina.

Ormai avevi quello sguardo saggio dei cani adulti, di quei cani che hanno trovato la loro strada. La vita è un cerchio dice Emily Dickinson e, in qualche modo, ogni cerchio deve chiudersi. Ma le mie mani, quelle che ti cingevano e accarezzavano per accompagnarti verso il tuo tramonto non lo sapevano.

Riuscivi a saltare in macchina, lo so. Ma ti piaceva che ti prendessi i posteriori e ti aiutassi a salire. Poi ci guardavamo e tu mi sorridevi. Perché avevi un sorriso bellissimo: sincero, dolce, tenero. Come tenera eri tu, di quella tenerezza che ci fa più paura come dice Gianna Nannini (e quanto è vero!).

Un breve viaggio per lasciare l’auto in una zona più pianeggiante: né io né te più forti di quella gioventù che ci aveva celebrate eravamo in grado di sfidare le irte salite del bosco dietro casa. Sei scesa del solito entusiasmo, ma con modo hai annusato e poi marcato.

Hai iniziato ad esplorare con la curiosità di sempre, mi hai cercata, con lo sguardo, con la stessa identica voglia di stare con me: connesse. Libere insieme. Non serviva il guinzaglio per te che sapevi perfettamente come muoverti, che riconoscevi l’ansia, la tensione e la difficoltà di chiunque ti si presentasse davanti. Ne sapevi intuire anche la gioia e il piacere nell’incontro, ma avevi imparato a non esporti se qualcuno non voleva.

Un cane gentile eri, Emma, gentile con le persone, gentile con i cani, curiosa con i gatti fino a prenderti qualche bella graffiata sul naso.

Camminavi in quella distesa di prati con le viti che facevano da cornice di quel tuo passo consapevole, placido e io ti guardavo, quanto ti guardavo, e mi riempivo gli occhi di te. Pensavo sempre quanto fosse bello guardarti, quanto mi sentissi fiera di averti al mio fianco, quanto io e te fossimo una cosa sola. Ed ecco la relazione.

Posso dire con certezza che il peso della relazione, il suo valore profondo emerge quando essa irrimediabilmente si sottrae perché è in quel momento che ci poniamo la domanda radicale: Potevo fare di più? Poteva esservi più intensità? Sei stata felice di me? Di stare con me?

E mentre un animale umano può vocalizzare, il cane può solo dimostrartelo, senza dire, senza camuffare, senza sofismi iperbolici. Ed è terribilmente diretto.

Nella sottrazione della relazione emerge il senso di responsabilità che essa muove in ogni essere dentro a una storia pronta a cangiare e cambiarci. Ma noi, noi che rimaniamo parte di questa Terra, abbiano nutrito a sufficienza quel dono enorme che ci è stato fatto?

Ecco che allora che i pensieri volano sondando passati gesti, presenti azioni e futuri impossibili da raggiungere. Un muro si innalza dinanzi a “cosa posso fare ora per te?” “Posso rimediare in qualche modo?”

In ogni storia c’è un errore, in ogni rapporto sacrificio. Io ed Emma abbiamo impiegato un po’ a capirci; ponte della nostra relazione è stata Zia Winky – l’altro cane che mi ha lasciata appena più di un anno fa – ma, ho compreso che io ed Emma eravamo compromesse, eravamo nella relazione quando Emma ha iniziato a cercare il mio sguardo come faceva con la Zia.

Io mi ero compromessa. Ero diventata umanocane. Avevo anche io un Quore di cagna.

Noi, filosofi postumanisti, poniamo come punto saldo delle nostre teoresi la rottura delle dicotomie. Le dicotomie sono ciò che per presupposto si considera in opposizione, per esempio: uomo-donna/natura-cultura/uomo-animale/bene-male.

Siamo infatti certi che questi poli non siano in opposizione radicale ma debbano entrare in costellazione giacché non esiste un’essenza assoluta ma la costante ibridazione – io preferisco compromissione – delle parti in modo che si crei un orizzonte generativo e non normativo.

Quello che ho capito in questi giorni, mentre ripercorrevo con la mente quell’ultima passeggiata, quelle ultime parole che ci siamo dette, quell’ultima volta che mi sono stesa sulla terra e tu mi sei passata sopra – l’unica in cui non mi hai dato una leggera zampata sul volto (chissà perché?) –  è che la dicotomia più potente e ingabbiante è quella io-tu.

Anche questa è l’ennesima disgiunzione che non ci fa cogliere l’intrinseca unione del tutto e che mette delle barriere ad ogni relazione. Essere nella relazione è essere nella compromissione in cui non esiste più nessuna forma di io come nessuna forma di tu giacché entrambe si esplicitano nell’essere un noi: un predicato e un senso che ci sorpassa sempre, che non possiamo raccogliere e portare a casa, ma che dobbiamo solo poter veder fiorire nella gioia della relazione.

Ecco Emma vedi, tu lo sapevi. Tu avevi capito. Noi eravamo compromesse l’una nell’altra in un vortice, un flusso che trascendeva noi stesse, la nostra storia, la nostra vita.

Stavamo tornando indietro, non avevi esitato un secondo, era sempre la stessa l’energia che ti aveva animato. Ero io ad essere stanca. Mi sono seduta su uno di quei muriccioli fatti di sassi che da queste parti prendono il nome di marogne.

Tu mi hai portato un piccolo bastoncino. L’ho preso in mano e lanciato. Poco lontana da me ti sei seduta per sgranocchiartelo, per goderti quella brezza fresca dell’inverno, il profumo dell’aria pulita e quell’amore che c’era sempre quando eravamo assieme, quella tenerezza che a pensarci adesso fa soffocare.

Sarai luce di stelle morte

Ti sei sdraiata a terra, come quando volevi riposare: il tuo sguardo era fisso in un punto. Fisso come se avessi visto qualcosa di troppo bello per riuscire a smettere. Poi un urlo. La pancia che si è contratta in un gran respiro. Poi altri due piccoli esili aliti ed ecco, Emma, ecco che avevi chiuso il tuo cerchio. Tutto era compiuto. Maledettamente per me, splendidamente per te.

Restiamo sempre qui. Noi che parliamo della morte. Sempre qui aggrappati alle nostre incertezze, al vuoto, alle paure. Al nostro essere carne troppo umana. Non posso non pensare al sacrificio che hai fatto morendo. Morendo per me. Per quell’ultima lezione che mi hai data che però resterà solo nostra. Non la diremo. Questo è un segreto, ma è nel segreto che si cela il senso, perché il senso si consegna a noi come segreto.

Mi sono messa davanti a te. I tuoi occhi ancora riflettevano il mio volto. Mi sono vista dentro di te. Mi sono vista attraverso te. Sono ciò che sono per te. Pochi minuti dopo non c’ero più dentro a quelle tue pupille, dentro a quello sguardo buono e accogliente. Ero scomparsa. Dovevo fare pace con questo: io ero scomparsa, ma tu no. Sarai come luce di stelle morte, e le stelle sono tutte morte, che guiderai il mio cammino. Sarai memoria di futuro. Una memoria strappata inspiegabilmente.

Ci sono modi più gentili, cara Vita per mostrarci la tua natura cangiante, mutevole, instabile. Con me, con Emma sei stata infame ma come nessuna relazione prevede staticità, risacche, neanche tu lo fai e allora sai cosa faccio io? Mi affido ad Emily Dickinson:

Io canto per consumare l’attesa –

Allacciare la cuffia,

chiudere la porta di casa,

non mi resta nient’altro da fare,

fin quando, all’avvicinarsi del suo passo finale

viaggeremo verso il Giorno

raccontandoci di come abbiamo cantato

per tenere lontana la Notte”. (E. Dickinson, Silenzi, Feltrinelli)

La morte non risparmia nessuno, né chi va né chi resta. Fa talmente tanta pura questa cosa che non se ne parla quasi mai. Siamo carne viva dei nostri lutti. Perché ogni cambiamento è anche un lutto.

E ora io osservo quell’infinità di spazi sconosciuti dinanzi al burrone più profondo che la vita mi abbia mai messo innanzi. Sospesa a quel senso di spaesamento che mi ubriaca di passato, presente, futuro comprendendo che non c’è più neppure questa radicale differenza. Come flusso mutevole incederò in questo cammino, senza te ma con te. Unica possibile memoria del mio futuro. Emma.

Vorrei solo per un momento, uno solo, tornare a casa…

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