Accade talmente raramente che è sembrato a tutti una sorta di miracolo, qualche cosa di insolito che si potrebbe essere un evento da segnare nei calendari della storia del Teatro: il passaggio di una Direzione Artistica di un Teatro nelle mani (e alla mente, al talento) di un’artista quarantenne. Il caso, difinibile X Files, del quale parliamo è quello della Direzione Artistica del Teatro Fontana di Milano che la bravissima e intelligente Rossella Lepore ha affidato a Ivonne Capece, performer, attrice e regista, laureata in Filologia Medievale e Discipline Teatrali.

La prima volta che vidi Ivonne l’applaudii per la sua interpretazione di una versione de La monaca di Monza, proprio in quel Teatro Fontana di cui oggi è Direttrice Artistica.

Ivonne Capece, la lotta per amore dei sogni

Ivonne Capece è una di quelle donne che ti potrebbe mettere soggezione, perchè il suo modo di parlare, il suo corpo sempre in azione, la sua voce… si fondono nell’ immagine di una donna forte e battagliera, eppure quei suoi occhi neri e profondi, quando sono sorridenti, ti accolgono in quel suo mondo di ragazza del meridione che grazie ai suoi talenti e ai suoi sacrifici si è partorita da sola… e allora capisci che ti puoi fidare di chi lotta per amore dei suoi sogni.

Se dovessi raccontare di te in terza persona, come ti racconteresti?
E’ una domanda interessante, non mi sono mai immaginata da fuori. Faccio sempre molta fatica a capire come gli altri mi vedono, quello che provano per me è un mistero. Mi stai chiedendo di essere un altro che mi guarda e che parla di me. Se dovessi usare il mio punto di vista interno ti direi: Ivonne è come l’acqua, filtra attraverso le crepe e modella la pietra con un’azione lunga e resistente. E’ anche un pozzo profondo e immoto, che sulla superficie non si increspa ma sul cui fondo si muovono molte cose non visibili. Una persona che non sono io, una volta mi disse: tu sei un mare verticale. E’ un’immagine affascinante ma che fa anche molta paura. Se dovessi usare il punto di vista di chi mi conosce poco, probabilmente ti direi: Ivonne è una persona determinata.

Come racconteresti ad un bambino/a la tua storia: attrice, recitante, al Teatro Fontana a Direttrice Artistica?
Direi: car* bambin*, c’era una volta una bambina che trovò 3 doni. Il primo lo aprì molto presto: erano due cuori, uno con sopra una M e uno con sopra una P, la bambina li mise nella borsa e li portò con sè. Il secondo dono lo aprì qualche anno dopo: c’erano dentro delle scarpe da ballerina, un pianoforte, dei libri e una maschera. La bambina li mise nella borsa e li portò con sè. Il terzo dono lo aprì molti anni dopo: c’era una bellissima signora che le apriva la porta di un castello al centro del quale scorreva una Fontana miracolosa, e consegnandole la chiave diceva: “Non dimenticare mai l’acqua che qui sotto scorre”. Morale della favola: i doni che la vita ci offre bisogna aprirli al momento giusto. Non bisogna mai avere fretta di aprire i regali.

Che significa, per te, essere/fare Direzione Artistica di un Teatro?
Dilatare a dismisura l’orizzonte della creatività personale: creare rompendo i limiti della creatività personale, creare attraverso la creazione degli altri, realizzare un’opera d’arte che non è il frutto del pensiero limitato di un singolo artista, ma di una collettività creativa. Mi è capitato di capirlo con Lucy,  la nostra performance finalista in Biennale College 2022, il cui concetto si è a mano a mano dilatato dal mio spettacolo personale all’orizzonte di un intero festival su umanità e tecnologia. Vorrei tanto che il pubblico che si avvicina al Teatro Fontana riesca un giorno ad avere questa percezione: lo spettacolo che ha appena finito di vedere non è finito, lo spettacolo che sta vedendo è la Stagione stessa, gli eventi non sono che singole scene. La nostra stagione 2024 si chiama Brucia Ancora, ecco, mi piacerebbe che un giorno il pubblico dicesse: “Ah, Brucia Ancora, che meraviglioso spettacolo!”.

Cosa farai di diverso che ancora non è stato fatto dai tuoi predecessori (non riferito a Rossella Lepore, ma in generale in Italia)? 
E’ difficile dire “farò qualcosa di diverso” nel 2024. Siamo tutti troppo vecchi per fare qualcosa di nuovo. Viviamo nell’illusione che il procedere in avanti del tempo porti la novità, la giovinezza. Invece è il contrario: i medievali dicevano “Mundus senescit”. il mondo invecchia. Si, il mondo andando non ringiovanisce, perchè le conoscenze si accumulano, aumentano e non diminuiscono. Finché crederemo di trovare nel futuro la giovinezza del “nuovo” saremo destinati a tristi esiti – come le signore che pensano di fermare il tempo piallandosi qualche ruga. Nel futuro non c’è il nuovo, ma un vecchio sempre più pieno e complesso. Questa complessità, se letta nella giusta chiave, quella che non la rinnega, si chiama Esperienza, si chiama Saggezza. Il futuro non può dare qualcosa di “diverso” ma può dare qualcosa di “migliore”. Vorrei tentare di fare della nostra vecchiaia culturale un tesoro.

Il mondo del teatro

Cosa ti spaventa, di più, del mondo del Teatro?
La sua storia: il marchio di fabbrica delle sue origini. Il segno di Babilonia che si porta addosso da millenni, che teorie pedagogiche, grandi scuole e scuolette dal ‘900 in poi hanno tentato di nascondere dietro il rigore di discipline tecniche, di significati spirituali, di slanci morali – riuscendoci male. E siamo diventati più ipocriti della peggiore ideologia borghese. Mi capita spessissimo di vedere a teatro spettacoli pieni di grandi slanci morali, di tanti nobili intenti, in assoluta contraddizione con la realtà ordinaria e sotterranea del mestiere che viviamo, esattamente come accade nel Grande Fratello. 

Il teatro era il postribolo preferito della società, gli attori e i danzatori erano prostituti ufficiali, i palchetti e gli archi fin dal Colosseo i luoghi in cui la gente poteva fare e vedere porcherie, dare sfogo al piacere, alla vanità e alla violenza. Tutto il piccolo mondo intellettuale di noi teatranti – che ci teniamo con tanto accanimento a dire che siamo persone serie, che facciamo sul serio, che siamo dei pensatori, dei creatori, degli intellettuali, che ci vuole fatica, che ci vuole sacrificio per poter recitare, per poter fare teatro – nasce da un complesso di inferiorità.

Abbiamo bisogno di affermare il nostro valore perchè il peso dei millenni ci mette a disagio. In Italia il farwest dei diritti sindacali e delle modalità contrattuali, e i commenti delle gente “ma perchè, è un lavoro?” non sono superficialità: sono millenni di storia che è entrata nelle fibre del pensiero. La società tende a vederci per come in realtà siamo sempre stati. Dovremmo forse partire dalla consapevolezza delle nostre origini, e chiederci quanto di quelle origini ancora pesa e agisce in noi e nei nostri rapporti di lavoro. Io spesso mi chiedo se è vero o falso che sono la puttana che la storia del teatro si aspetterebbe da me.

Cosa ti fa “perdere la testa” (in positivo e anche negativamente)? 
Mi fa perdere la testa la Bellezza. Quella vera, che è pensiero, forma ed etica insieme. Mi fa perdere la testa nella vita, e dunque accade anche nell’arte. Mi fa perdere la testa l’Amore, quello vero: che è desiderio, cura e sacrificio. Quello che mi fa perdere il controllo è invece l’incapacità di analisi dell’altro e di auto-analisi. Sono una scrutatrice di verità, ho l’ossessione della verità, quando ho la sensazione che una persona fugga dalla verità (su se stesso o su altri) mi accanisco, divento un guardiano ringhioso. Le persone non a fuoco su se stesse e sugli altri mi innervosiscono molto. Mi capita spesso di guardare video dell’Universo, che mi spaventano anche molto, ma lo faccio perchè bisogna sempre essere coscienti del posto che si occupa nell’ordine delle cose. 

Fare Teatro è fare Politica? 
Si, decisamente lo è. Non nel senso nobile del termine, però. 

Che tipo di spettatrice sei, quando vai a Teatro?
Paurosa. Provo spesso delle emozioni di paura durante i primi minuti degli spettacoli. Poi di solito mi accorgo che non c’è nulla da temere e quindi inizio ad annoiarmi. Sulla noia sto facendo un pò di umorismo naturalmente, ma sulla paura no. Lo spettacolo che più ha inciso sui miei ricordi è stato un “Per farla finita col giudizio di dio” da Artaud. Avevo 19 anni, dopo i primi 10 minuti sono scappata fuori per la sensazione di panico che mi aveva creato e ho seguito tutto il resto ipnotizzata dietro la tenda di ingresso, senza guardare. Tu pensa: lo spettacolo emotivamente più travolgente che ho visto è stato quello che non sono riuscita a guardare. Troppo spesso andiamo a teatro e non succede niente, non temiamo neppure per un istante che ciò che vediamo potrebbe smuovere la terra sotto i nostri piedi. 

Cosa ti diverte di più del racconto che fanno di te gli amici/che…oppure le persone che non conosci ma delle quali percepisci cosa pensano di te? 
Che il 99% delle volte di me non hanno capito nulla, parlo anche di amici che mi conoscono da molti anni. Lo trovo molto divertente. Mi è capitato di sentirmi “vista” davvero solo 2 volte nella mia vita, da persone che non fossero mia madre (che invece mi legge benissimo)

Cosa abbiamo (fortunatamente) lasciato nel Teatro del passato?
Abbiamo lasciato qualche cretino, penso. Ma ne sono arrivati di nuovi.

Cosa stiamo abbiamo (purtroppo) perso del Teatro del passato?
Abbiamo perso i soldi. Un gran peccato.

Dal tuo punto di vista qual è la fatica maggiore a far riconoscere la propria professionalità in un mondo ancora troppo maschile?
In passato mi è capitato certamente di avere la sensazione che il fatto di essere femmina ponesse dei limiti di fiducia in chi avevo davanti, non ti nascondo che ci sono stati momenti in cui ho avuto la sensazione precisa che se fossi stata maschio sarei stata ascoltata più facilmente e prima. Mi è capitato ad esempio che operatori e giornalisti chiedessero al danzatore che lavorava nel mio spettacolo significati articolati sulle scelte della mia regia, invece che chiedere direttamente a me che ero affianco; o parlarmi con formule plurali del tipo “come avete pensato di fare questa cosa?”. In che senso “come avete?” Chi sono gli altri? Come HO pensato, sono la sola regista dello spettacolo, perchè mi parli al plurale (eheh)? Mi è capitato di vedere giovani registi maschi fare gruppetto tra loro per chiacchiere e gag durante festival o eventi e non includermi, non avvicinarsi – come i ragazzini alle scuole medie. Però devo dirti una cosa col senno di poi, il mondo maschile forse c’entra poco, io penso che è difficile in generale farsi valere, farsi ascoltare. Per una voce sola che riesce a levarsi, tante meritevoli restano mute.

Sei diventata ciò che sognavi di diventare da bambina?
Da bambina non sognavo di fare teatro, però sognavo moltissimo. Inventavo molte storie, personaggi, ero molto creativa. Perciò io penso di si, penso di essere diventata ciò che da bambina sognavo di essere. 

Qual è la maggior preoccupazione quando inizi un nuovo lavoro?
Che non avrò il tempo necessario per farlo essere ciò che davvero vorrò, che dovrò fare violenza alla mia mente perchè raggiunga un obiettivo determinato in un tempo limitato, che non riuscirò a dare voce rigorosa al processo in tutte le sue componenti. La seconda cosa che penso è che non avrò il tempo di vedere il mare finché non finirò.

Cosa pensi del “pubblico”? 
Penso che il pubblico sia molto intelligente. Molto di più di quello che gli operatori culturali credono, e che spesso meriterebbe di meglio di ciò che gli viene offerto.

Chi è il tuo punto di riferimento, oggi (cinema teatro musica arte vita privata…)?
Mi piace Bill Viola e mia madre, Alfred Hitchcock, Kubrick, Kurosawa e Tarantino, mi piacciono i Musei Vaticani e il palazzo di Avignone, mi piace Tomar la città dei templari, mi piace andare a Ibiza a Pasqua a vedere la via crucis, mi piacciono i Quartieri Spagnoli a Napoli e la Cina, e le piante del Lungomare di Rimini scelte da Benedetta Tagliabue, una delle più grandi architette al mondo; il giardino di Dungeness di Derek Jarman, che a proposito è il soggetto di una performance in cuffie wireless molto suggestiva con mia regia, che andrà in scena il 20-21 aprile al Teatro Fontana. La performance, oltre ad omaggiare il suo capolavoro cinematografico “Blue”, parla di Aids e diritti civili, e sarà preceduta da un talk con numerosi ospiti per parlare di arti e temi civili. Può essere un’ottima occasione per vedere un aspetto dei miei riferimenti emotivi e artistici. 

Cos’è che ti fa scoraggiare?
L’indifferenza delle comunità umane alla bellezza. L’indifferenza delle comunità umane alla ricerca. L’indifferenza delle comunità umane al coraggio. L’indifferenza delle comunità umane al dolore.

Cosa si potrebbe fare, secondo te, per portare più giovani a Teatro?
Portare le esperienze artistiche direttamente nelle scuole, in modo permanente e costante. Ho parlato volontariamente di “esperienze artistiche” e non teatrali, perchè se la proposta teatrale non è affidata ad artisti che fanno davvero ricerca a certi livelli e con un certo spessore non produce il risultato sperato, anzi alimenta il disconoscimento e la percezione che il teatro non possa rispondere alle esigenze emotive dei ragazzi. Molto spesso le progettualità teatrali legate alla scuola sono inconsistenti per numero e presenza, per continuità e per professionisti coinvolti.

Mi chiedo che cosa potrebbe accadere se i ragazzi avessero la possibilità costante di vedere tra le pareti della scuola, in palestre o in spazi teatrali attrezzati all’interno, programmazioni serie con cadenze mensili regolari, pensate per loro e portate nelle loro strutture, accanto a progetti di storia del teatro e laboratori creativi di tipo teatrale inseriti come parte integrante dei percorsi scolastici. Ma si tratta di questioni molto ampie, certamente di tipo economico, ma non solo.

Attualmente molti tra gli stessi docenti hanno percezioni del teatro borghesi e ristrette, e molto marginali. Qualche anno fa a Dortmund ho avuto il piacere di assistere ad un progetto straordinario: un’opera lirica contemporanea pensata per under18 e realizzata da un team di artisti under30 (incluso il direttore d’orchestra, il librettista, il compositore e il regista) di una bravura straordinaria. L’opera lirica utilizzava anche ologrammi, e un’app che permetteva ai ragazzi di interagire con lo spettacolo chiedendo l’approfondimento, ad es. attraverso arie extra cantate, dell’interiorità di alcuni personaggi.

Il tema era il rapporto che 3 ragazzi avevano con i loro cellulari, e la discrepanza tra la loro vita “social” che si esprimeva attraverso il contenuto dei loro cell, e la loro vita reale. Venivano toccate all’interno della trama questioni anche molto delicate, come l’identità di genere, poiché ad es. uno dei protagonisti utilizzava sui social profili e video in abiti femminili, ma nella realtà faceva fatica ad esprimere la propria identità. Tutto questo all’interno della struttura di un’opera lirica. Comprendi ciò che voglio dire?

L’ultima volta che ti sei commossa per un’opera d’arte (cinema teatro musica musei)?L’ultima volta mi sono commossa davanti a un robot che provavo a far danzare, nel momento in cui ha smesso di avere paura di me (diventando tutto lampeggiante di rosso e bloccandosi) e ha iniziato a seguire ciò che io gli chiedevo di fare. Ho pianto. E non aveva neppure aspetto antropomorfo, strano vero?

In cosa credi?
Nella forza dei miei obiettivi e nell’amore della mia famiglia.

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