Fabio Massimo Franceschelli è autore di drammaturgia, narrativa, saggistica. Ha scritto svariati drammi, monologhi e commedie, rappresentati in Italia e all’estero e in gran parte pubblicati. Nel 2017 ha vinto la Menzione Quadri al 54° Premio Riccione per il
Teatro, riconoscimento “all’opera che meglio coniuga scrittura teatrale e ricerca letteraria“.

Ha firmato numerose regie e diretto festival teatrali. Cura laboratori teatrali. Con il romanzo Italia, pubblicato da Del Vecchio Editore, è stato finalista dell’edizione XVIII
del Premio Italo Calvino
; della prima edizione del Premio POP 2016 (menzione speciale);
dell’edizione 2017 del Premio Nabokov (secondo classificato).

Il suo racconto Ipotesi V è stato recentemente pubblicato da Edizioni Arcoiris nel primo volume della collana di letteratura nera Trema. È stato fondatore della fanzine teatrale Ubusettete; redattore della rivista di drammaturgia contemporanea Perlascena; redattore della webmagazine di critica dell’arte e della società Amnesia Vivace; collaboratore di PaneAcquaCulture, rivista web di narrazione del contemporaneo. Scrive di critica del contemporaneo sul blog ereticobencotto. Di recente ha pubblicato per Progetto Cultura il testo drammaturgico L’etica di Cesare che commentiamo con lui.

Perché occuparsi proprio di Cesare Battisti, quali aspetti di fascinazione e quali di reinvenzione hai evidenziato?
Non si può negare il fascino di Cesare Battisti, un uomo che fugge per quasi quarant’anni e la fa franca contraddicendo in pieno il primo principio di un fuggitivo, che è quello di nascondersi. Cesare Battisti fa la scelta opposta, si mette sotto i riflettori, si reinventa nel ruolo di scrittore, diventa un personaggio pubblico, un uomo di azione e di pensiero, trova accoglienza all’estero solleticando sentimenti e pregiudizi antitaliani, nega ostinatamente ogni accusa e interpreta il ruolo del perseguitato. Per reazione a tutto questo, in Italia diventa una sorta di trofeo di caccia ambito dai politici, viene narrato quasi come fosse il nemico pubblico nazionale. Eppure basterebbe leggere la sua biografia per scoprire che in realtà la storia eversiva di Cesare Battisti è stata ben poca cosa: un delinquente comune con una breve esperienza nella lotta armata, non un ideologo né un organizzatore o reclutatore, assolutamente non un leader, manovalanza piuttosto. In questo senso è un paradosso vivente.

Come ti sei posto il tema della storicizzazione del personaggio in questo caso?
Il concetto di storicizzazione va qui inteso in un duplice senso. Il primo è la storicizzazione che fa l’autore quando distacca il soggetto dalle dinamiche e dalle emotività dei fatti contemporanei per renderlo oggetto di analisi razionale – ovvero lo consegna alla storia intesa come narrazione, una dimensione atemporale dove non ci sono giudizi ma solo tentativi di asettica comprensione di fatti e fenomeni. Il secondo è la storicizzazione che tanto il mio Cesare, quanto il vero Cesare Battisti, quanto ancora centinaia di ex terroristi o di intellettuali, hanno chiesto e chiedono ancora di applicare ai cosiddetti anni di piombo: storicizzare quel periodo, toglierlo quindi dagli ambiti giudiziari per farlo diventare esclusiva materia di storici. Sono passati un po’ più di quarant’anni da quegli anni, da quegli eventi, non è poco, porsi il problema della storicizzazione è giusto, eppure al tempo stesso sento che l’opinione pubblica non è ancora pronta a questo passo, e il clamore suscitato dall’estradizione di Cesare Battisti in Italia lo dimostra. Per storicizzare occorre essere pacificati, e noi non lo siamo ancora del tutto.

 In che senso ti rifai a una nozione di etica nel suo caso?
Parlo di etica nel senso aristotelico del termine, studio di un comportamento, riflessione sui criteri in base ai quali un comportamento viene valutato. Mi interessava indagare la convivenza di un uomo con i propri errori, in particolare quando si tratta di errori gravissimi, quattro omicidi premeditati. Cesare Battisti è fuggito dal carcere nel 1981 ed è stato arrestato in Bolivia nel 2019, 38 anni dopo. La lunga fuga di Cesare Battisti è un dato di fatto; un altro dato di fatto è la sua colpevolezza. Non voglio entrare nei meandri della sua vicenda criminale e processuale, voglio semmai assumere come pura ipotesi speculativa la verità di quella colpevolezza, verità che è comunque sancita sia da una condanna definitiva della Giustizia italiana sia da una confessione piena, per quanto tardiva, di Ceare Battisti stesso. Quindi, riassumendo, un uomo è responsabile di quattro omicidi, eppure scappa dalla condanna per quarant’anni. Come ha gestito dentro di sé, in tutti quegli anni, il peso di quella condanna? E parlo tanto della condanna processuale quanto di quella emessa dalla narrazione mediatica nazionale e infine, soprattutto, di quella – eventuale, possibile, probabile – che lui stesso si è inflitto. Venire a patti con i propri errori, autoassolversi o, all’opposto, autocondannarsi, tutto questo è molto umano, ma quando questi errori sono di un’enormità incommensurabile, errori che hanno spezzato la vita di quattro uomini, in quali modi ci si può venire a patti, per giunta per quarant’anni?

Esiste un teatro politico in Italia?
Ho un po’ di difficoltà a rispondere a questa domanda perché ammetto che per vari motivi, alcuni molto personali, da diversi anni ho perso di vista l’evoluzione e lo stato di salute del teatro italiano. Di certo non mi pare di vedere in giro eredi di Brecht, né di Dario Fo. Forse la vera domanda da porsi è: esiste un pensiero politico in Italia?

Cosa significa per un drammaturgo del tuo calibro pubblicare un testo e con che finalità?
Ho sempre sostenuto la duplice valenza di un testo drammatico: la sua autonomia letteraria da un lato e il suo essere strumento di scrittura scenica dall’altro. Insomma, andare in scena non è l’unica strada per un testo teatrale; è altrettanto importante tentare di pubblicarlo per far sì che venga letto, come si fa per un romanzo. Leggere drammaturgia è bellissimo.

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