Lo spazio in cui è allestita la prestigiosa Collezione Maramotti (Reggio Emilia – Emilia Romagna), è stato progettato dagli architetti Antonio Pastorini ed Eugenio Salvarani; una struttura che fu loro commissionata nel 1957 e successivamente ampliata negli anni ‘60 dalla Cooperativa Architetti e Ingegneri di Reggio Emilia.

Si tratta di un edificio nato come prima sede aziendale della Casa di Moda Max Mara, attiva dal 1951 e fondata da Achille Maramotti (Reggio Emilia, Emilia Romagna, Italia,7 Gennaio 1927Albinea, Emilia Romagna, Italia, 12 Gennaio 2005). Quello stesso edificio divenne poi luogo espositivo e d’incontro tra Storia, Memoria, Arte. Un’architettura assolutamente innovativa, caratterizzata da un’illuminazione e una ventilazione ottenuta naturalmente. Risale al 2003 il trasloco dell’Azienda, trasferitasi a Nord della città di Reggio Emilia vicino ai tre ponti e alla stazione ferroviaria dell’alta velocità progettati dall’architetto Santiago Calatrava Valls (Benimámet, Valencia, Spagna, 28 Luglio 1951).

Collezione Maramotti – Ingresso lato Nord/North entrance – Ph. Claudia Marini

La trasformazione

La struttura, funzionale e significativa, dopo essere stata completamente svuotata, venne riconvertita per creare lo spazio dove sarebbe nata la Collezione. L’intenzione di Achille Maramotti, di costituire una Raccolta d’Arte Contemporanea che non fosse soltanto “da guardare” ma un’opportunità di stimolo intellettuale, risale agli anni Settanta. I lavori di riconversione furono affidati all’Architetto inglese Andrew Hapgood che lavorò nel rispetto della struttura industriale originaria, trasformandola nel luogo per l’esposizione.

Ritengo significativo rendere noto che da tempo, all’interno di questo edificio in cui si lavorava alle collezioni di moda, Achille Maramotti promosse la stimolante convivenza tra creatività artistica e disegno industriale rendendo quegli spazi di lavoro vibranti di creazioni: le Collezioni di moda di Max Mara nascevano accanto alle prime opere d’Arte che costituirono la Collezione Maramotti. Una modalità purtroppo ancor oggi non condivisa da molte aziende, ma che evidentemente fecero parte del Codice Etico, non solo di un’Azienda, ma di un uomo lungimirante, interessato con passione ai linguaggi diversamente espressivi, della Moda e dell’Arte, in costate evoluzione .

Collezione Maramotti – Ingresso lato Est/Eastentrance – Ph. Bruno Cattani

Lo Spazio

I nuovi sostanziali interventi della conversione dell’edificio furono tre. Oggi il piano terra ospita la reception, le sale espositive per le mostre temporanee, la biblioteca/archivio e gli uffici, mentre i primi due piani ospitano la Collezione Permanente. Lo studio attento dell’illuminazione si è attenuto alla distribuzione della luce solare in modo che venisse mantenuta una stretta relazione con l’ambiente esterno, attribuendo assoluta importanza alla natura mutevole della luce. Per quanto riguarda invece l’illuminazione delle gallerie della Collezione Permanente, queste risultano ampiamente illuminate a giorno dalla vetrata che scorre lungo il perimetro originale della struttura. Anche il contesto del paesaggio è stato debitamente tenuto in considerazione, con un progetto in linea con gli stessi principi tenuti presente per la conversione dell’edificio, utilizzando specie vegetali e soluzioni ornamentali rispettose della tipicità del territorio, allo scopo di rafforzare l’idea di una ri-colonizzazione del luogo come paesaggio post-industriale.

Collezione Maramotti – Cortile interno e spazio progettuale Pattern Room – veduta notturna /Courtyard and project space Pattern Room–by night – Ph. Bruno Cattani

La Collezione Maramotti

L’intera Collezione Maramotti è composta da centinaia di opere d’arte eseguite a partire dal 1945. Di queste molte sono in Esposizione Permanente e rappresentano alcune delle principali tendenze dell’arte italiana e internazionale della seconda metà del XX Secolo. La Raccolta è costituita soprattutto da dipinti, ma sono presenti anche sculture e installazioni appartenenti agli esordi di artisti che hanno il merito di aver introdotto sulla scena contemporanea italiana, nuovi elementi di sostanziale innovazione.

Il percorso inizia con una serie di importanti quadri europei, indicativi per rappresentare le tendenze espressioniste e astratte degli anni Cinquanta, e un gruppo di opere italiane protoconcettuali. A questi succede un corpus di dipinti della Pop Art romana e numerose opere di Arte Povera.

Claudio Parmiggiani, Natura morta con testa nera, 1974, calco in gesso, pigmento, conchiglia, terracotta, © Claudio Parmiggiani – Ph. Carlo Vannini – Courtesy Collezione Maramotti – https://www.collezionemaramotti.org/

Seguono significativi esempi di Neo-espressionismo italiano (Transavanguardia) e tedesco, Neo-espressionismo tedesco e americano, opere appartenenti alla New Geometry americana degli anni Ottanta-Novanta e più recenti sperimentazioni internazionali.

Claudio Parmiggiani, Giordano Bruno, 1977, tempera su tela, legno, marmo marquinia, © Claudio Parmiggiani – Ph. Carlo Vannini – Courtesy Collezione Maramotti – https://www.collezionemaramotti.org/

Dal 2019, per la prima volta, dieci sale del secondo piano hanno accolto alcune opere di progetti espositivi presentati nei primi dieci anni di apertura della Collezione; lavori che oggi offrono ai visitatori l’opportunità di conoscere artist* italian* e stranier* di fama internazionale, attraverso una serie di creazioni d’arte realizzate in un momento particolarmente significativo della loro personale ricerca e, proprio per questo, oggi parte della Collezione Maramotti. Alle opere del XXI Secolo, che per la maggior parte non sono presenti in esposizione, sono dedicate mostre tematiche. La Collezione, con questa modalità d’azione, dimostra di voler procedere all’accoglienza delle artiste e degli artisti per essere testimone di produzioni contemporanee in grado di significare.

Il percorso

Il percorso prende inizio dalla definizione del termine Collezione, e da una considerazione di Walter Benjamin, il tutto scritto Nero su Bianco:

Collezióne s.f. Dal latino Collectio – onis, der. di colligĕre «raccogliere».

Il motivo più profondo del collezionista può essere forse così

circoscritto: egli intraprende una lotta contro la dispersione.

Il grande collezionista originariamente è colpito dalla confusione,

dalla frammentarietà in cui versano le cose di questo mondo (…)

Il collezionista riunisce ciò che è affine: in tal modo può riuscirgli

di dare ammaestramenti sulle cose in virtù della loro affinità

o della loro successione nel tempo.

Walter Benjamin

1930 © Charlotte Joël – Walter Benjamin – Immagine di pubblico dominio.
Walter Bendix Schönflies Benjamin (Berlino, Germania, 15 Luglio 1892 – Portbou, Spagna, 26 Settembre 1940)

Accanto a queste parole, di fronte a chi accede nella sala, campeggia sulla candida parete bianca una imponente scultura di Arturo Martini (Treviso, Veneto, Italia, 11 Agosto 1889 – Milano, Lombardia, Italia, 22 Marzo 1947), Il Sogno,realizzata in terracotta nel 1931 e successivamente in bronzo nel 1950. Un’opera ritenuta la maggiore eseguita dallo scultore, per l’espressione della sua forza creativa e la tensione stilistica, geniale per l’impianto ottenuto in uno spazio ridotto in cui è adagiata su un letto una figura femminile addormentata; sotto di lei un cane è accucciato. Potremmo definirlo un racconto la cui magia è data dalla finestra schiusa. Quell’elemento di collegamento verso l’esterno è intensamente significativo rispetto al desiderio di mantenere aperta non solo nel sonno, momento in cui sospendiamo la veglia e in cui tutto può accadere, ma anche nella vita, la possibilità che tutto possa sempre accedere. Il racconto di A. Martini ne dà testimonianza in uno spazio “rituale”, divenuto luogo di connessione e sintesi di comunicazione all’inizio di un percorso di bellezza, per ricordare a tutt* che gli incontri, e soprattutto quelli che avvengono con le opere d’Arte, hanno il potere di cambiare la vita.

Alcune opere esposte nella sala successiva sembrerebbero immediatamente confermare questa possibilità. Il primo sguardo si posa su un lavoro di Alberto Burri (Città di Castello, Perugia, Umbria, Italia, 12 Marzo 1915 – Nizza, Francia, 13 Febbraio, 1995), intitolata Nero con punti rossi del 1956; un’opera in cui la tela è fronte e retro, sopra e sotto, luogo dell’arte in cui è la vita ad essere rappresenta con le sue “cicatrici, graffi, traumi, rughe”. Una verità diretta al pensiero della cura, dove una traccia di ciò che è stato è lasciata e resta viva, nella sua immediatezza e spontaneità, anche quando è consegnata allo sguardo.

Non sarebbe potuta mancare un’opera di Lucio Fontana (Rosario, Argentina, 19 Febbraio 1899 – Cormabbio, Varese, Lombardia, Italia, 7 Settembre 1968) quale espressione non-figurativa, di una rigorosa ricerca senza clamori polemici, puramente formale. Tagli netti a dimostrazione che quei segni (i tagli) sono incompatibili con una delimitazione dello spazio poiché rappresentano la distruzione simbolica della pittura con la propria ambiguità di doppio spazio: un fuori e un dentro, un al di qua e al di là della superficie. Il gesto/segno è l’aspetto operativo, risultato da una riflessione attenta: «Nell’epoca del “progresso”tecnologico, Fontana rivendica all’artista la prerogativa dell’invenzione.» (G. C. Argan, 1770/1970).

Francis Bacon, Man Eating a Leg of Chicken, 1952, olio su tela – Courtesy Collezione Maramotti – https://www.collezionemaramotti.org/

Una severa condanna giunge da Francis Bacon (Dublino, Irlanda, 28 Ottobre 1909 – Madrid, Spagna, 28 Aprile 1992) presente con un dipinto ad olio su tela del 1952, Man Eating a Leg of Chicken (Uomo che mangia una coscia di pollo). Bacon rifiuta l’arte astratta perché:

«qualsiasi cosa in arte somber crudele, perché la realtà è crudele […]

nell’astrazione non si può essere crudeli».

Egli sostiene che quella che l’arte deve scatenare è la lotta tra artista e soggetto, tra l’opera e chi la osserva, perché essa è un diagramma di forze, un continuo scontro di energie. Il filosofo francese Gilles Deleuze (Parigi, Francia, 18 Gennaio 1925 – Parigi, Francia, 4 Novembre 1995) affermò che in Bacon la Figura non è «figurativa» perché non rappresenta «forme» ma intercetta «forze» definite da Deleuze diagrammi. Nella scena è rappresentata una figura maschile che addenta una coscia di pollo portata alla bocca con la mano destra. Il gesto pacato immerso in un fondo nero, è avvolto da un’atmosfera densa e opprimente rischiarata da una luce proveniente da destra che conferisce volume alla figura. La rappresentazione di una gestualità naturale, il portare cibo alla bocca, è trasformata in un’altra energia: un atto carico di violenza.

Collezione Maramotti – Veduta di sala con opere di: Pino Pascali, Jannis Kounellis. Ph. C. Dario Lasagni – Courtesy Collezione Maramotti – https://www.collezionemaramotti.org/

Nelle sale che seguono si succedono opere degli artisti della Pop Art romana, e tra queste il Colosseo di Pino Pascali (Bari, Puglia, Italia, 19 Ottobre 1935 – Roma, Lazio, Italia, 11 Settembre 1968); autore eclettico considerato uno dei maggiori esponenti dell’Arte Povera. Colosseo fu realizzata nel 1964 ed esposta l’11 Gennaio 1965 nella storica Galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis a Roma, in occasione dell’inaugurazione della prima personale dell’artista. Opera di grandi dimensioni (Al. 170 x La. 220 cm.), faceva parte di un gruppo che venne definito Rilievi, realizzato con la tipica tecnica che Pascali acquisì dall’esperienza di scenografo: tela dipinta a smalto su centine lignee. In questo lavoro la Protesta Pop Art e la Storia si intrecciano rendendolo il tassello di un clima che vuole ricondurre l’operazione artistica alla sua essenzialità, alla forma pura dalla percezione immediata, all’immaginario Pop e alla presenza ingombrante della storia. Così descrisse Cesare Vivaldi (Imperia, Liguria, Italia, 13 Dicembre 1925 – Roma, Lazio, Italia, 13 Gennaio 1999) l’esposizione del giovane Pascali:

«nuova conferma delle possibilità europee, anzi italiane, di superare la pop art per creare una pittura e una scultura più complesse, più attente alla molteplicità del reale, se mi è lecito dirlo più ‘colte’ […] Ma c’è in essi uno spessore culturale, nonostante la loro dichiarata semplicità, che li rende cosa molto lontana […]. Il diaframma attraverso il quale l’oggetto è messo a fuoco, non è il mass medium (e neppure l’obiettivo fotografico, che sino a non molto tempo fa sembrava il minimo comune denominatore della giovane pittura romana) ma i miti tipici della nostra cultura spicciola: usati con gusto ironico e demistificante, ma insieme presi sul serio, per quel che valgono e contano e contano realmente sotto la patina del luogo comune. Così Pascali ci restituisce un Colosseo, dei ruderi di colonne, un muro di tufo che sono sì una satira della romanità di cartapesta, ma anche un omaggio ironico-commosso a un passato, a una tradizione non tanto facilmente sopprimibili» (1965).

Collezione Maramotti – Biblioteca e Archivio /Library and Archive – Ph. Bruno Cattani – Courtesy Collezione Maramotti – https://www.collezionemaramotti.org/

Attraversando le sale, le opere rendono i visitatori partecipi di grandi azioni interiori che percorrono gli anni, con testimonianze insospettabili. Così è per un’opera di Alighiero Fabrizio Boetti (torino, Piemonte, Italia, 16 Dicembre 1940 – Roma, Lazio, Italia, 24 Aprile 1994). Le sue considerazioni sul tempo, e sul relativo conto alla rovescia, lo portano a realizzare un lavoro ispirato al criminale statunitense Gary Mark Gilmore, nato Faye Robert Coffman (McCamey, Texas, USA, 4 Dicembre 1940 – Draper, Utah, USA, 17 Gennaio 1977), fucilato il 17 Gennaio del 1977. E’ un inchiostro su carta (Al. 100 x La. 150 cm.) in cui l’artista ha scritto con la mano sinistra frammenti di interviste di un uomo che fece spontaneamente richiesta di venir giustiziato e riproducendo i contorni di fotografie del detenuto pubblicate in molte riviste dell’epoca. Con la medesima modalità del ricalco, sono presentate alcune delle immagini dei cadaveri dei corpi assassinati da Gary Mark Gilmore. L’assassino fu giustiziato con la fucilazione alle 08:07 da un plotone di esecuzione composto da cinque agenti di polizia del penitenziario di stato dello Utah a Draper negli Stati Uniti d’America.

Enzo Cucchi, Untitled, 1989, olio, acrilico e ferro su tela, © Enzo Cucchi – Ph. Carlo Vannini – Courtesy Collezione Maramotti – https://www.collezionemaramotti.org/

Nel percorso incontriamo grandi lavori di Enzo Cucchi (Morro d’Alba, Marche, Italia, 14 Novembre 1949), autore “inquadrato” nel nucleo storico della Transavanguardia italiana, un artista che proprio negli anni Ottanta si è imposto all’attenzione di critica e pubblico per aver eseguito opere assolutamente uniche, armoniche, dinamiche, dove le forme si confondo, si compenetrano e divengono strumento di comunicazione essenziale attraverso cui esprimere emozioni e intenzioni.

Più vicino agli dei, del 1983, è un olio su tela di grandi dimensioni. Gli dei posseggono il privilegio di essere immortali, giocano con le forme e confondono i generi. «[…] il corpo divino è rappresentato in continua metamorfosi, segno di una potenza divina che non si identifica mai del tutto con le sue manifestazioni particolari e non ha necessariamente bisogno di un corpo per manifestarsi.» Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Enzo Cucchi, Più vicino agli dei, 1983, olio su tela, © Enzo Cucchi – Ph. Carlo Vannini – Courtesy Collezione Maramotti – https://www.collezionemaramotti.org/

Cucchi presenta un paesaggio enigmatico come visto dall’alto, in un fermo immagine catturato in volo dagli ultimi esseri viventi che si stanno allontanando da uno terreno senza più corpi, ne atrocità. La gestualità del pennello crea vortici in diverse direzioni con l’uso del Colore Blu e dei non colori Bianco e Nero che seguono l’andamento orizzontale della superficie su cui si susseguono le pennellate rapide ed incalzanti contrapposte alle fiammelle di fuoco, slanciate nell’opposta direzione: in verticale. Al centro un “cimitero”, l’agglomerato di una serie di costruzioni ormai inadeguate ad offrire qualsiasi protezione. I salti di scala confondono, rimangono ignote le motivazioni relative all’accaduto e l’impressione di chi guarda è quella di assistere ad una danza in perfetto accordo cromatico e luminoso, un’esecuzione ritmica che trascina lo sguardo in un luogo deserto, il punto di fuga da un nemico che non possiamo vedere.

La monumentale installazione nel cavedio

Una delle due opere che occupano uno spazio particolare è la monumentale installazione di Claudio Parmiggiani (Luzzara, Emilia Romagna, Italia 1° Marzo 1943), tra i maggiori protagonisti del panorama artistico internazionale. Caspar David Friedrich, eseguita nel 1989, è un omaggio al pittore tedesco che scrisse di se stesso:

«Perché, mi son sovente domandato,
scegli sì spesso a oggetto di pittura
la morte, la caducità, la tomba?
È perché, per vivere in eterno,
bisogna spesso abbandonarsi alla morte.»

William Vaughn, Caspar David Friedrich, Londra, Tate Gallery, 1972, p. 16 – 17.

Claudio Parmiggiani, Caspar David Friedrich, 1989, © Claudio Parmiggiani – Ph. Dario Lasagni – Courtesy Collezione Maramotti – https://www.collezionemaramotti.org/

Friedrich è uno degli autori sentiti più vicini all’opera di Parmiggiani. Caspar David Friedrich, collocata nel cavedio, è uno scafo con tre tele/vele “issate”, un’insieme dipinto di non colore Nero dalla struttura composita di legno e tela. Lo scafo, sottratto alla gravità è il complesso edificio spirituale del viaggio di ogni essere vivente, che conosce il luogo da cui è partito ma ignora quale sia quello del proprio approdo. Il galleggiante, oggetto a lui particolarmente caro perché parte dei ricordi d’infanzia, si fa mezzo di trasporto della storia dell’umanità, diretta per ognun* alla soglia tra l’infinità di Dio e i limiti delle Sue creature umane. Entrare fisicamente in quell’ambiente e poter osservare l’opera di Parmiggiani, da sotto in su, lascia attonit*, incapaci di proferir parola con una percezione del vuoto che immediatamente muove la fantasia verso luoghi conosciuti, ipotizzati o immaginari. Spostarsi sotto lo scafo, nello spazio dell’acqua, senza quell’elemento che ha il potere di insinuarsi ovunque senza permesso, produce una sensazione niente affatto scontata. Ritengo serva il desiderio per accedere in quell’intersezione di richiami e luce, dove nulla è semplice e racconta la continua ricerca dei corpi di acque tranquille, dove voltare finalmente le spalle al buio e ripartire verso le rotte dello spirito.

Peter Halley, The Western Sector, 1989-1990, acrilico, acrilico Day-Glo, Roll-a-Tex su tela – © Peter Halley – Ph. Carlo Vannini – Courtesy Collezione Maramotti – https://www.collezionemaramotti.org/

Il secondo piano mette a contatto soprattutto con l’arte americana; non solo pittura ma una sperimentazione che osa di più rispetto all’Europa. Tra i lavori quelli di Peter Halley (New York, Stati Uniti d’America, 1953), figura centrale del movimento neo concettuale degli anni Ottanta per l’indagine delle strutture fisiche e di quelle psicologiche nello spazio sociale. Nel 1980 Halley è a New York, città che diede un’influenza fondamentale al suo linguaggio pittorico-geometrico che divenne distintivo. Della città in cui viveva osservò le dimensioni, lo sviluppo tridimensionale e le coordinate urbane, decidendo di dare vita, sulle superfici dipinte, a griglie di collegamento della geometria reale in cui era inserito con le immagini di confine degli spazi della contemporaneità. Lavora con i colori Day Glo e il Roll-a-Tex (un additivo strutturale che conferisce ai suoi lavori una qualità tattile e architettonica) guardando al mondo della proiezione intellettuale o diagrammatica in una modalità soggettiva e affettiva con cui articola i suoi spazi organizzativi dominanti o rappresentativi della società in cui viviamo.

Collezione Maramotti – Veduta di sala/Exhibition viewopere di /artworks by:©Peter HalleyPh. Dario Lasagni – Courtesy Collezione Maramotti – https://www.collezionemaramotti.org/

Concludo l’excursus della Collezione Maramotti con il lavoro di un’artista contemporanea che conosco e stimo come donna, pittrice, e ritengo possegga una “vocazione” nitida e cruciale. I suoi dipinti sono custodi di un esercizio che è in grado di riscrivere la storia di ogni volto ritratto partendo da dentro, dall’indagine degli assilli della vita per far affiorare i dettagli dell’animo.

Alessandra Ariatti, Silvia, Monica e Giorgio. “La Provvidenza nascerà prima del sole” (Lacordaire), 2010-2013, olio su tela, © Alessandra Ariatti – Ph. Dario Lasagni – Courtesy Collezione Maramotti – https://www.collezionemaramotti.org/

Alessandra Ariatti (Reggio Emilia 1969) crea paesaggi dell’anima, anime che scandaglia nel profondo, attraverso il segno, per raccontare non solo delle persone e dei loro luoghi, ma della geografia, della storia di un territorio, e dell’umiltà sacra di ciò che realmente serve alla vita. Di fronte ai protagonisti delle tele si avverte un leggero senso di vertigine, folgorati dall’intreccio evidente di pensieri e parole che continuano ad esistere in ognuno di noi ed escono dalla pelle che si incide con il passare del tempo. Nelle minuscole celle della quadrettatura riportata sulla tela, il gesto pacato di Alessandra Ariatti offre ricovero al sacro senza clamore, con un processo della pittura che si stratifica nella reciprocità dello sguardo. Si deve sostare nelle “briciole” della materia colore per comprendere che l’atto creativo è rigenerativo nella personale intenzione di risalire al vertice dall’immagine, come luogo intenso e teso all’invisibile.

Immagine in evidenza: Alessandra Ariatti, Vilma e Gianfranca. “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Vangelo di Matteo 10,8), 2010-2013, olio su tela, © Alessandra Ariatti – Ph. Dario Lasagni

Un sentito ringraziamento a Zeynep Seyhun, all’accompagnatrice, alle collaboratrici, ai collaboratori e all’autista di Collezione Maramotti.

La pubblicazione delle immagini fotografiche di questo articolo scritto per la testata giornalistica digitale ReWriters, è stata autorizzata da https://www.collezionemaramotti.org/.

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