“L’Africa ha dato al mondo l’umanità. E questa non è una piccola cosa” (Prof. Philip Tobias).
E’ in Sud Africa che si trova il Maropeng Visitor Centre (Cradle of Humankind World Heritage Site, Sudafrica). Si tratta del centro ufficiale della Culla dell’umanità, un sito del patrimonio mondiale a breve distanza da Johannesburg e Pretoria.
Il suo nome significa ritorno al luogo di origine in Setswana, una delle 11 lingue ufficiali del Sudafrica. Nel Maropeng Visitor Centre il visitatore è accompagnato in un viaggio indietro nel tempo dalle origini del nostro universo, circa 14 miliardi di anni fa sino al presente e oltre, attraverso un’esperienza immersiva e interattiva. Il centro si trova in un’area di 47000 ettari, che è stata riconosciuta Patrimonio dell’Umanità nel 1999 dove più di 1000 fossili di ominidi risalenti a circa tre milioni di anni fa sono stati trovati all’interno delle grotte calcaree tra cui il più antico fossile di Australopithecus noto come Mrs Ples e lo scheletro quasi completo di Little Foot.
All’ingresso del centro una pietra con l’incisione del continente africano recita: “L’Africa è il luogo di nascita dell’umanità. Dove il nostro cordone ombelicale collettivo è sepolto”.
Il visitatore è continuamente stimolato ad interrogarsi sui grandi temi della nostra contemporaneità, alla ricerca del “lo sapevate che…?”.
Lo sapevate che “il nostro vorace appetito collettivo sta mettendo a dura prova il nostro pianeta?”
Il costo del cibo per gli animali consumato annualmente in Europa e negli Stati Uniti è di 17 bilioni di dollari. Il costo stimato annuale per eliminare la fame e la malnutrizione nel mondo è di 19 bilioni di dollari.
Lo sapevate che “L’essere umano è la specie più in movimento sulla Terra?”. Noi siamo capaci di viaggiare da un lato all’altro del mondo più velocemente della velocità del suono, grazie alle nostre invenzioni.
Abbiamo popolato quasi ogni parte del pianeta, dalle cime delle montagne sino alle isole. Il nostro istinto migratorio è forte. Ma la migrazione non è sempre volontaria e spesso deriva dai conflitti, spesso dalla mancanza di risorse.
Sono anche i conflitti dunque che spingono l’essere umano a spostarsi, per fuggire da qualcosa. Il fisiologo statunitense Walter Cannon ha definito il costrutto del fight or flight nonché di attacco e fuga. Davanti ad un evento minaccioso o percepito come pericoloso per sé o per i propri cari si attiva una reazione neuronale fisiologica che spinge il soggetto a combattere o a fuggire. E così gli esseri umani a causa di una guerra, di un evento catastrofico naturale, a causa della povertà, di una dittatura, fuggono. Fuggono disposti a lasciare la loro terra di origine, per qualcosa che evidentemente è fondamentale: la sopravvivenza e dunque la protezione e la salvaguardia di sé e dei propri cari.
Ma quando un essere umano fuggito dalla propria terra per sopravvivere, arriva in un altro luogo, gli abitanti di quest’ultimo innalzano muri, marcano e rinforzano confini con filo spinato e carri armati. Lo respingono e non lo accolgono.
E qui eccola che arriva la paura del diverso, dell’ignoto.
Lo sapevate che attraverso processi automatici e preconsci, sviluppati per lo più in età precoce, effettuiamo un’analisi immediata delle caratteristiche dell’altro, percependolo come oggetto familiare, self e simile a noi o, al contrario, come estraneo e diverso? L’appartenenza a un gruppo comune, ad esempio, facilita il riconoscimento dell’altro come simile a noi. Il mancato riconoscimento dell’altro come oggetto self pone la necessità di ricollocarlo rapidamente all’interno di un campo percettivo chiaro e definito. In assenza di un riconoscimento complessivo questo può avvenire solo attraverso un’analisi più elementare delle sue caratteristiche essenziali, come ad esempio la statura e l’atteggiamento, amichevole o aggressivo. Affrontare l’ignoto ci costringe a mettere in atto un processo psichico attivo: la presenza nell’altro o in qualsiasi oggetto ignoto di elementi innocui e rassicuranti genera in noi una reazione di curiosità e ci porta a esplorare la novità, al contrario, la presenza di elementi potenzialmente minacciosi genera paura e diffidenza. È evidente, in questa prospettiva, che la paura e la diffidenza provata di fronte al diverso non possano essere motivi di biasimo, ma elementi fisiologici e funzionali alla nostra preservazione, che evitano di esporci a situazioni di pericolo. Attenzione, però. Quel che facciamo dei nostri istinti non è una responsabilità della biologia o della specie, o dei nostri impulsi naturali, ma del singolo individuo e della società odierna. La paura è un processo arcaico, più vulnerabile e plagiabile proprio perché non tutelato dalla consapevolezza. Ma noi siamo gli esseri viventi più evoluti filogeneticamente e siamo dotati di coscienza e di ragione.
La paura nasce a livello preconscio e sottocorticale, ma i nostri pensieri e i nostri comportamenti sono il prodotto dell’integrazione delle attività corticali e sottocorticali, consapevoli e inconsapevoli, razionali ed emotive. Se la paura non deve essere ripudiata ma può legittimamente albergare dentro di noi, è altrettanto doveroso che la ragione ne riconosca il significato e ne moduli l’espressione. Possiamo guidare i nostri processi emotivi e inconsapevoli e non esserne schiavi.
I meccanismi che ci preservano e ci definiscono non possono e non devono essere modificati. Forse la progressiva contaminazione della nostra società, la creazione di un ambiente sempre più multietnico e l’integrazione già tra i banchi di scuola degli immigrati di seconda generazione – bambini figli di culture diverse, ma nati e cresciuti nel nostro stesso milieu culturale – permetteranno alle generazioni future di abbattere le barriere della diversità. Tanto da riconoscere l’altro, indipendentemente dall’etnia di appartenenza, come oggetto self, familiare e simile a noi. Forse saranno i nostri figli un giorno a insegnarci a non essere razzisti. Fino ad allora, fino a quando il colore della pelle non conterà quanto quello degli occhi, tutto quel che ci resta da fare è riconoscere i nostri processi intrapsichici e accoglierne i limiti, rimodulandoli attraverso le funzioni che ci rendono più nobilmente umani.