Se la situazione in Ucraina sembra riportarci indietro con la mente ai decenni della minaccia della guerra nucleare, il mondo di oggi non è certo quello di Nevile Shute o Stanley Kubrik.

All’epoca, Charles Keeling aveva appena iniziato a raccogliere i dati che successivamente lo hanno portato al legame fra riscaldamento globale e azione antropogenica.

Mentre scrivo invece, una notifica sul telefono mi avverte che ancora una volta l’IPCC, dal report di lunedì 28 febbraio, ha provato a gridare quanto il nostro ritardo sul prendere provvedimenti per contrastare la crisi climatica in corso porterà a “mancare una finestra di breve apertura e rapida chisura per garantirci un futuro vivibile”. Lo dichiara Hans-Otto Pörtner co-presidente del gruppo di lavoro 2 dell’IPCC.

La tanto sbandierata energia nucleare, oltre ai tempi di costruzione decisamente troppo lunghi per l’emergenza in corso e ai costi esorbitanti, non contribuisce alla resilienza di un territorio.

L’Ucraina ha 4 centrali attive, più Chernobyl. James Acton, co-direttore del Nuclear Policy Program del Carnegie Endowment for International Peace ha scritto non meno di quattro giorni fa: “In parole povere, le centrali nucleari non sono fatte per le zone di guerra. È altamente improbabile che Mosca autorizzi attacchi espressamente su queste strutture, nonostante ciò possono venire colpite in una guerra che può, in ogni caso, perturbare le loro operazioni”.

Se teniamo conto di quanto il deterioramento delle strutture in caso di guerra sia pericoloso e di quanto quelle stesse anche senza guerra si deteriorino e la manutenzione costi molto, ecco dove avviene lo scollamento tra un progetto stabile su carta, brevettato per funzionare a determinate condizioni, e le variabili della realtà.

Eppure, contro il parere degli esperti, il nucleare è stato inserito nella tassonomia europea sulle attività sostenibili rendendo meno credibile quello che poteva essere un ottimo strumento per una vera transizione ecologica.

Non basta non produrre gas serra per essere sostenibile. Senza contare che nello World Nuclear Report del 2019 Mycle Sheider dichiarava: “Stabilizzare il clima è faccenda urgente mentre il nucleare è lento. Non ha nessun bisogno operativo o tecnico che i low-carbons competitors non possono fare meglio, a meno costo e più velocemente.

Sto parlando di centrali mentre l’argomento centrale erano le armi nucleari? Per l’IPCC le due cose sono correlate: pagina 70, tra gli “ostacoli e rischi associati all’incremento del nucleare” c’è anche “nuclear weapon prolification concerns”. Per dare il via a una centrale, il plutonio e l’uranio arricchito diventano maggiormente disponibili per una nazione, diventano quindi potenzialmente disponibili anche per usi bellici.

Il nucleare non difende una vera transizione ecologica. Difende un bias cognitivo travestito da razionalità: il pensiero mirato alla soluzione di un problema e non a una visione olistica complessa, il pensiero di chi preferisce tenere su con le stampelle il business as usual piuttosto che apportare cambiamenti radicali.

Si difende inoltre, invece che prospettare alternative, l’incapacità culturale delle persone di pensare un’utopia anche lievemente al di fuori di questo stile di vita, seppure questo si dimostri poco resiliente e decisamente poco egualitario nel distribuire ansie e felicità, ricchezza e povertà.

Gli utenti Facebook si rivoltano agli esperti che richiamano a consumare meno lasciando perdere l’asciugatrice (esperienza personale, l’articolo era un’intervista al meteorologo Federico Grazzini) perché un mondo diverso da questo non lo sanno più immaginare.

La mutazione antropogenica pasoliniana deve averci messo ancora del suo dato quanto è differente questo modo di reagire dai tedeschi ad esempio che hanno avuto per anni le bolette più alte d’Europa per finanziarsi la vera transizione ecologica (Die Energiewende).

Nonostante alcune magagnette e alcune necessarie revisioni per cui nel corso del 2021 le cose non sono andate proprio secondo i piani (ha fatto la sua ricomparsa anche il carbone), l’Energiewende continua verso le rinnovabili e con lo smantellamento pianificato di centrali nucleari e a carbone.

Gli scenari possibili non sono affatto infernali e gli elettori intanto nel 2021 hanno mandato i Verdi al governo. Dato che nel 2021 – in piena pandemia ma dopo le inondazioni in Renania – il 36% della popolazione riteneva che la più grande preoccupazione del futuro fosse il cambiamento climatico, in Germania un briciolo di sforzo nel pensare un domani differente ed assumersene le responsabilità c’è e c’è stato.

Il covid come conseguenza dello spillover, la questione del gas russo, il ritorno del carbone, i rischi reali del nucleare, l’IPCC che sbraita inascoltato… Molte cose sembrano indicare che la nostra storia ha buone probabilità di finire come la trama di Don’t Look Up.

Dal punto di vista politico, so benissimo che quel che dico è grave: perdere speranza e arrendersi significa delegare ad altri il cambiamento ed è una cosa che sicuramente non desidero. È lo stesso pensiero che rende tanta gente involontariamente co-autrice della stagnanza di certi settori pubblici, politica inclusa. Lo scenario però, a livello mondiale, appare desolante.

Invece, io spero che finisca come Children of the Dust, che vi consiglio. Non è una cli-fi ma un post-apocalittico e ha più o meno la mia età. Children of the Dust parte come distopia e finisce come utopia.

Come sappiamo, il Novecento mette in discussione l’idea (che parte da Thomas More) di una società felice per tuttə: non tuttə abbiamo gli stessi parametri e l’utopia incarnata spesso si tramuta in totalitarismo.

Il pensiero utopico però continua a essere alla base della politica: si fa politica in virtù di un’ideale di mondo sono quindi molte utopie a confronto che fanno la democrazia. L’utopia nei romanzi Novecenteschi (e oltre) non esiste da sola, ma è sempre in qualche modo di fronte al suo specchio (la distopia) come lo yin e lo yang.

Children of the Dust è diviso in tre parti e in tre narratori: la prima narratrice ci parla di una guerra atomica, uno scenario disastroso che costringe le persone a morire lentamente fra le mura di casa (e i poveri animali fuori). Sarah si rende conto che la sorellastra Catherine, nonostante sia una bambina, è determinata a sopravvivere e la dà in custodia a un uomo adulto assieme a una raccolta di semi.

Il padre di Sarah e Catherine invece si è salvato nascondendosi in un rifugio nucleare dove continuerà la sua vita con una nuova compagna e una nuova figlia, Ophelia. Nella terza parte, Catherine oramai anziana e il figlio di Ophelia, Simon, si ritrovano. Catherine e l’uomo a cui era stata affidata, che poi è diventato suo marito, hanno ripopolato un certo angolo di terra e, per adattarsi alle nuove condizioni.

I nuovi umani hanno sviluppato una peluria particolarmente resistente alle radiazioni che rende Simon, cresciuto alla maniera tradizionale e nudo, decisamente meno resiliente di loro. I semi sono stati salvati e almeno una valle al mondo è in fiore. Da quella, riparte la vita.

In questo libro c’è la catastrofe inevitabile e il dolore che porta, ma c’è anche un’evoluzione in termini psicofisici dell’homo sapiens. Chi opera il cambiamento più grosso a favore delle nuove condizioni di vita, vive poi meglio. Ecco, il punto è questo.

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