Anni fa, un po’ per caso, mi sono ritrovata a lavorare nel centro di prima accoglienza di Treviso, dove i minorenni rimangono in stato di arresto o di fermo nell’attesa di essere ricevuti da un giudice. Non è un carcere, ma gli assomiglia molto.

In quegli anni ho ammassato molte cose, ma le ho messe in ordine solo leggendo il romanzo di Valeria Parrella, Almarina – Giulio Einaudi Editore.

Nel carcere minorile di Nisida, dove è ambientata la storia, il regolamento vuole che il cellulare rimanga fuori. Nelle prime pagine, la protagonista, la professoressa Maiorano, racconta del giorno in cui suo marito muore e lei, dentro al carcere, è ignara di quello che stia accadendo fuori.

Cosa fareste, se accadesse a voi? 
Io, nelle prime pagine del libro, mi sono detta che avrei lasciato Nisida, avrei temuto il ripetersi della storia, non avrei forse più messo in silenzioso il cellulare. Eppure Elisabetta Maiorano non solo rimane, ma, mentre guarisce se stessa, cura le ferite di Almarina, una giovane alunna dal passato impronunciabile. Siamo abituati a pensare che il carcere sia semplicemente il posto peggiore per i ragazzi, ma ne siamo facilmente persuasi perché non sappiamo quale sia la loro vita fuori. Quando ero lì dentro alcuni si auguravano di rimanere in carcere e io faticavo a capire, io che non vedevo l’ora di uscire, io che non sopportavo quei contenitori in polistirolo per il pranzo né quel copridivano sformato.

Poi ho capito, e leggendo Almarina ho capito ancora meglio.

Così come i ragazzi e le ragazze erano disposti a rimanere dentro, per stare al sicuro, per avere sempre da mangiare, per andare a scuola e affinché qualcuno, seppur in un contesto crudele, se ne prendesse cura, così Elisabetta Maiorano prova a trattenere i suoi alunni lì, perché la matematica e la realtà in carcere si possono ancora addolcire, e perché, fuori di lì, dove andranno?

In quegli anni di centro di prima accoglienza c’erano cose che mi facevano soffrire molto: mi facevano male le perquisizioni di giovani ragazze poco più piccole di me, quelle storie già scritte e già lette che sembrano assomigliarsi un po’ tutte, mi faceva male l’odore di chiuso e di sigarette, le voci che provenivano dal carcere minorile adiacente, il colore del caffellatte nel bicchiere di plastica, i pigiami e le ciabatte della misura sbagliata, i lunghi capelli bagnati delle ragazze che non avevano un phon. Nei giorni di freddo, mio papà veniva a prendermi alla fine del turno in auto, perché non mi raffreddassi, e lasciavo quindicenni che non avevano nessuno da contattare, che non sapevano dare un indirizzo e indossavano vestiti usati da altri prima di loro e che poi sarebbero stati di altri ancora.

Quello che mi faceva male era l’assenza di amore nelle loro vite. I rimedi al dolore, tanto di Elisabetta che di Almarina, sono la cura e la tenerezza. Il romanzo trasuda cura e tenerezza e addolcisce anche il nostro dolore.

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