È lo sguardo che fa l’autore. Voglio dire, non è solo quello, ma in molti casi è quello. Prendete La pelle.
La pelle poteva essere il grande racconto storico della liberazione di Napoli da parte degli americani, e invece racconta altro: La pelle è una discesa tra le macerie umane. Nel viaggio di Malaparte tutto è abiezione e orrore, nulla si redime ma sconta il peccato originale della storia, i vincitori si differenziano dai vinti solo perché sanno nascondere l’altra faccia, la vittoria è illusione, la storia è bifronte, e tutto questo ci arriva grazie allo sguardo di Malaparte, lo sguardo che cambia lo spin delle vicende umane. E poi arriva quella frase.
Malaparte ha una scrittura affilata, se deve scegliere tra due parole sceglie quella che può fare male. In un passaggio centrale del libro è con alcune persone tra cui il colonnello americano Jack Hamilton e Jeanlouis, figlio di un’amica nobile di Malaparte. Parla con loro degli zazous, che in Francia durante la Seconda Guerra mondiale, indossavano abiti sgargianti e si abbandonavano alle lascivie del jazz e del bebop. Scherzano su questa genia di invertiti, effeminati – Malaparte non tira mai di fino – e Jeanlouis protesta con Malaparte usando parole esaltate, “mentre quelli fanno gli eroi a Parigi, noi moriamo per la libertà”.
E qui entra in campo lo sguardo dell’autore, lo sguardo di Malaparte che officia il disincanto. Malaparte scrive che, davanti a quella frase apodittica, tace, “non sapendo che rispondere”. E scrive: “non si sa mai cosa rispondere, a della gente che muore per la libertà”.
È la frase idolatra che irride e deride la storia, è la frase che sovverte i valori, che depotenzia il mito. È la frase che riscatta gli sconfitti, i senza patria, coloro che siedono dalla parte del torto, è la frase che neutralizza le categorie di vincitori e sconfitti, la frase che mette in discussione il mondo com’è.
Tutte le crisi iniziano con una frase così.
La pelle di Curzio Malaparte (Adelphi, 2010)
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