L’Italia negli anni ’70 e ’80 avrebbe iniziato a chinare il capo a ogni formula di consumismo e atomizzazione della vita sociale. Intanto, ai confini del sistema, nei pressi della frontiera con la Jugoslavia, c’era chi stava iniziando a provare a fare una virtù della necessità di sopravvivere come cultura. Si tratta della storia della famiglia Devetak e degli sloveni d’Italia, un popolo fedele ai valori della tradizione contadina, concentrato sulle colline del Carso e al centro de La locanda ai margini d’Europa, un romanzo di Enrico Maria Milič pubblicato da Bottega Errante (Udine, 17 euro) che in alcune pagine prende il respiro del saggio etnografico per riuscire a spiegare al lettore delle grandi città il punto di vista di chi vive sul margine.

Il palcoscenico, vero come vera è la storia, è quello di un’osteria a San Michele del Carso, una regione che da secoli è abitata quasi esclusivamente dagli sloveni, sebbene una parte di essa oggi sia in Italia. L’osteria, fondata a metà dell’Ottocento, dalla fine degli anni Settanta del Novecento viene presa in gestione nella stessa casa dello stesso paese da Avguštin Devetak, trisnipote del fondatore. In quegli anni, Avguštin incontra Gabriella, originaria di San Martino, l’unico paese di lingua italiana del Carso. Si innamorano e si sposano, alla faccia delle violente contrapposizioni del ‘900 tra italiani e slavi della Venezia Giulia, di cui purtroppo libri scolastici e testate giornalistiche italiane riportano quasi solo di esodo istriano e foibe.

Osteria Devatak durante la Prima Guerra Mondiale e tre soldati austroungarici

L’osteria punto di riferimento della comunità slovena del Carso

L’italiana Gabriella diventa la cuoca di quella osteria che con gli anni diviene un punto di riferimento della comunità slovena del Carso, simbolo enogastronomico e quindi identitario. Ma la ciccia della storia de La locanda ai margini d’Europa si svolge tra le mure di casa, a esplorare come Gabriella divenga una nativa, imparando lo sloveno e non solo.

Osteria Devetak a fine anni ’60 – dietro il giovane Avguštin accanto al papà Renato – a destra Helka Devetak, mamma di Avguštin

Riflette oggi Gabriella, in uno dei brani etnografici del libro:

«Entrai in una famiglia che aveva una vecchia mentalità. Tutti mi dicevano che sarebbe stato difficile, per la lingua, le tradizioni, i modi. Ma io non mi ero mai fatta un problema. Accettai le robe belle e quelle brutte. Accettai i suoceri, mia cognata e tutti gli altri parenti».

Il progetto di vita di Gabriella e Avguštin nel Carso

Gabriella e Avguštin danno vita a un progetto di vita, dove l’amore romantico e quello della realizzazione materiale di reciproche vocazioni non solo sono inseparabili, non solo sono capaci di plasmare le nuove generazioni per far loro apprezzare il lavoro degli antenati. La storia dei due protagonisti è capace di porre al lettore il dubbio su quanto sia opportuno che la società dominante urbana e cosmopolita tenda a gettare acriticamente nel cestino ogni singolo valore della famiglia tradizionale.

Avguštin e Gabriella

L’arco narrativo conduce fino agli ultimi anni, al pranzo della riconciliazione tra i presidenti Mattarella e Pahor che si siedono proprio ai tavoli dei Devetak, quando la loro osteria nel Carso ormai corona tre decenni di popolarità nelle guide enogastronomiche nazionali più importanti, a loro volta suggellati nel 2023 dalla Stella Verde Michelin.

La presentazione del libro a Roma

La locanda ai margini d’Europa verrà presentato il 9 novembre alla Libreria Panisperna 220, via Panisperna 220 a Roma. Sarà presente l’autore Enrico Maria Milič, che dialogherà con Emanuela Cerri, content manager a Mondadori e Roberto Weber, presidente del centro studi Divulga, di Coldiretti Italia.

Chi è Enrico Maria Milič

Enrico Maria Milič, triestino del 1976, ha studiato antropologia a Belfast. A Roma nel 2000 è uno dei fondatori di Studenti.it ma solo dal 2010 inizia a occuparsi di cibo, campagne e cucina. Tra il 2011 e il 2015 porta centinaia di triestini italiani ad alcuni corsi di orticoltura che si tengono nei campi di Pliskovica, un paesino in Slovenia a loro sconosciuto, malgrado sia a qualche chilometro dalla città. Dal 2022 collabora con Slow Food Italia e, come volontario, è tra i creatori del Presidio della Pecora Carsolina Istriana. Ha scritto articoli per L’Unità, Internazionale e per alcune pubblicazioni accademiche. Collabora come autore e creativo per documentari d’autore, video commerciali, progetti creativi. Dal 2021 ha la doppia cittadinanza: italiana e slovena.

Enrico Maria Milič

L’intervista all’autore

Qualcuno potrebbe vedere il tuo libro come un elogio della famiglia tradizionale. È così?
Non lo è per forza. Ma sia a me sia ai Devetak interessa sostenere alcuni valori e pratiche che giungono dal passato. Mi interessa leggere la storia dei Devetak, che provano a vivere di questi valori, nel contesto del capitalismo. Decenni fa Max Weber aveva profetizzato che nel mondo occidentale la razionalità avrebbe creato un mondo immerso in

«buio glaciale e durezza»,

cioè un mondo e una vita senza significato. È il mondo in cui spesso abbiamo la sensazione di trovarci. Il capitalismo industriale in cui sono cresciuti Avguštin e Gabriella, dipendeva dallo sfruttamento e dal controllo della natura, di cui ora ci rendiamo conto per le sue conseguenze catastrofiche.

Il capitalismo della sorveglianza contemporaneo di oggi, dominato dalle multinazionali digitali come Facebook e Google, secondo la sociologa Shoshana Zuboff dipende

«dallo sfruttamento e dal controllo della natura umana. Il mercato ci riduce al nostro comportamento, ci trasforma in un’altra merce fittizia impacchettata perché altri possano consumarla».

Penso che a tutto ciò proposto dai grandi padroni sia preferibile attingere agli aspetti migliori della civiltà tradizionale, compresa un’attenzione per la spiritualità. Dobbiamo calare questi valori sensatamente nei giorni d’oggi in cui, giustamente, le donne vogliono essere libere di scegliersi un lavoro e libere di decidere il loro ruolo in famiglia.

Gabriella, la protagonista del libro, una chef ormai importante, dice oggi:

“Ormai non c’è più nessun cliente italiano che si lamenti o se ne vada via arrabbiato perché il menu o le ricevute sono bilingui.

Essere sloveni e affermarlo, nel nostro angolo d’Italia, è diventata una roba accettabile per tutti”.

Si può dire che la famiglia Devetak con la propria resistenza abbia portato accettazione e inclusività in una terra difficile, di confine e da sempre conflittuale come quella del Carso?
Non solo gli sloveni Devetak sono capaci di accogliere un’italiana. Dentro l’osteria dei Devetak nessuno viene escluso o discriminato. Là il menù è bilingue da decenni e nel commentare i fatti che si susseguono in una terra da sempre conflittuale si parla sia l’italiano sia lo sloveno. Nel ‘900 è stato estremamente difficile essere accoglienti e aperti a identità diverse tra Carso, Gorizia e Trieste. Lasciando stare il ventennio fascista, quando le identità diverse dall’italiano sono state rese illegali e soggette alla violenza, nella cosiddetta Venezia Giulia diffidenza, nazionalismo e razzismo reciproci sono stati diffusi, se non dominanti.

Ancora negli anni ’70, per far capire il clima che si respirava nell’Alto Adriatico, ricordiamo che nelle scuole slovene di San Giovanni, a Trieste, estremisti di destra collocavano due bombe, senza provocare morti o feriti per puro caso. I Devetak sono stati capaci di compiere un capolavoro nel Carso, dove malgrado un contesto spesso tragico, hanno approfondito il senso della propria identità famigliare, tenendo sempre aperta la porta al mondo. In altre parole hanno coltivato avanti la propria identità.

Oggi la faccia enogastronomica della loro identità che attinge alla tradizione è sempre più attrattiva, perché evoca significati e relazioni, convivialità e affetti, sostenibilità dei prodotti locali e senso della comunità locale, ovvero proprio ciò che scarseggia nella società più ampia. In questo senso, i Devetak sono un esempio per capire il successo italiano e globale del movimento Slow Food.

Leggendo il libro e il suo finale viene in mente che le ricette, la cucina, i piatti tipici e il non far si che questi spariscano a favore di una cucina globalizzata possono portare a un riconoscimento della diversità. Questa è stata secondo te una battaglia che la famiglia Devetak ha combattuto consapevolmente o era mossa da altre ragioni? Per esempio non saper fare altrimenti o un’ostinazione data anche dalla propria origine contadina?
Va ricordato che tra le qualità dei Devetak oltre alla loro specifica educazione sentimentale, c’è un grande intuito imprenditoriale ed è raccontato da un fatto: nel 1970 sulla loro collina c’erano 19 osterie e oggi ne rimangono solo 6 ed è un dato che tutti capiamo nell’esperienza dei rioni delle città o dei paesi di campagna, ovvero dal diradarsi delle osterie. Ovviamente ciò che la società chiedeva a un’osteria nel 1970 è qualcosa di profondamente diverso rispetto a ciò che a un’osteria chiediamo nel 2023.

I Devetak hanno capito nel tempo le ragioni non solo del cliente locale, ma anche di quello nazionale e internazionale. Ci possiamo chiedere se in nome della sopravvivenza della loro azienda, abbiano abdicato anche a loro stessi, al volersi bene, al volere bene alla loro comunità di base che è il loro paese coi suoi campi e l’ecosistema. Credo proprio che non abbiano rinunciato ai loro valori di fondo, perché altrimenti avrebbero potuto traslocarsi in qualche grande città e costruire i loro affari altrove dalla loro remota ‘Grossa Pietraia’, ovvero il nome che i Devetak e gli sloveni residenti danno al Monte San Michele, su cui poggiano i loro paesi.

Gabriella è il primo esempio di integrazione. Potrebbe essere il suo ingresso nella famiglia Devetak, la sua volontà ad imparare lo sloveno ed essere accettata dalla famiglia del marito ad aver generato un processo virtuoso a cui tutti i membri della famiglia hanno via via aderito fatto di comprensione, accettazione e inclusione?
Sì, potrebbe essere. A me un po’ piace pensarla così, portando in me delle similitudini con Gabriella, essendo un triestino di madrelingua italiana, con radici slovene, autore di storie e progetti all’interno di un contesto sloveno. Gabriella insegna che da outsider ci vuole sia un’enorme dose di cocciutaggine sia tantissima capacità di accogliere la durezza di una cultura come quella slovena carsolina, segnata dalla miseria atavica e poi dall’aggressività dei nazionalismi. Il suo risultato però, frutto del lavoro in famiglia e in cucina, è spettacolare, ovvero è un grande messaggio di resistenza sentimentale e, allo stesso tempo, di pace.

L’incontro tra Avguštin e Gabriella avvenuto alla fine degli anni Settanta proprio durante il boom economico e l’avvento di fortissime spinte di globalizzazione è emblematico di chi resiste all’omologazione. La loro storia rappresenta chi non si oppone al cambiamento ma pretende che questo avvenga nel rispetto della propria identità. Secondo te i Devetak e i carsolini sono un’anomalia isolata?
Non sono per nulla un caso isolato. Chi vive ai margini, e questo capita tanto a chi vive sulle lontane colline del Carso o nelle valli alpine del nord, o nelle remote profondità del sud Italia, di norma si sente altro e pensa altro rispetto a chi vive al centro degli Stati, al centro delle grandi città. Secondo alcuni studi sulla popolazione adulta degli Stati europei, chi vive nelle periferie e nelle aree rurali di solito in media si fida molto di meno del sistema politico. Tre le varie cose, questa mancanza di fiducia ha portato al successo di partiti “contro il sistema”: di destra e anche di sinistra. Qualcuno ha addirittura coniato il termine “pasokificazione”, prendendo spunto dal caso greco del Pasok, lo storico Partito socialista greco, il cui crollo ha dato spazio alla crescita del movimento di sinistra alternativa, Syriza. È interessante notare che, per quanto riguarda l’Italia, lo storico sociale Nuto Revelli già nei decenni del dopoguerra denunciava il disinteresse dei grandi partiti di sinistra verso le campagne minori e la montagna.

Qual è stata a tuo parere la ragione principale per cui alla fine i Devetak hanno avuto successo laddove molte altre realtà minori hanno dovuto soccombere?
Non c’è solo l’outsider, Gabriella, che è una chiave di successo. È la stessa famiglia Devetak, malgrado le durezze della tradizione, a tramandarsi delle soluzioni. Sono protagonisti di un successo di una natura alta e sottile perché la sua natura più importante non è economica. La soluzione è molto semplice, in verità, ovvero è quell’educazione sentimentale che i Devetak si trasmettono di generazione in generazione. Dovremmo allenarci a ricordare, come i Devetak sanno bene, che tutti viviamo in luoghi specifici e non solo intellettuali, non solo fatti da libri o, peggio, da numeri di business plan, burocrazie e algoritmi dei social media. Ognuno ha il diritto e il dovere di fare il suo meglio per prendersi cura, con gentilezza e amore, dei luoghi concreti e delle comunità in cui viviamo.

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