Oggi leggiamo “Lacci” di Domenico Starnone.
Da uno spiraglio di memoria dolorosa, l’uscita di un film in tempi di Covid, mi viene in mente una lettura, intensa e sofferta, di qualche anno fa. Era il 2014, e di colpo ricordo, come fosse ieri, una notte insonne passata a leggere il libro di Starnone, Lacci, dentro la luce soffusa di una casa deserta, il cui unico rumore di sottofondo era da troppo tempo cristallizzato in una dolorosa solitudine. Legami che diventano lacci, che spesso non sappiamo annodare, riannodare e sciogliere, quando dovremmo.

Un libro che diventa rivelazione, un libro a più voci e incastri temporali, senza sconti e riscatto, un libro dove tutti sono perdenti, semplicemente perché hanno rinunciato a vivere, per rabbia, rancore, rimpianti, recriminazioni, paura, senso di colpa, dolore, incapacità, egoismo, viltà.

La storia è apparentemente banale, ma è la storia di molti di noi: un matrimonio finito che non finisce mai lasciato in vita dallo stridore dei cocci di vetro abbandonati lungo il cammino verso gli inferi, la storia di un tradimento che racconta altro, di legami che diventano prigioni e lacci che diventano cappi. Quella di Vanda è la storia di una vita che si richiude in se stessa come fa un riccio lasciando in eredità solo il veleno dei propri aculei, la storia di una donna triste e poco gentile, recriminante e incapace di riscatto, rancorosa e perdente, dedita ai figli che non esita ad usare come arma contro il marito che l’ha lasciata, incurante del dolore che lei stessa sparge a piene mani, dolente e incattivita, pronta a incarnare il ruolo della vittima sacrificale che passa tutta la sua vita rabbiosa con l’unico obiettivo di far tornare a casa il marito Aldo, fedifrago, bugiardo, timoroso, egoista e altrettanto dolente, innamorato di un’altra donna che dopo anni gli imporrà di scegliere tra lei e la moglie, incapace di scegliere davvero fino in fondo e portato alla rinuncia per timore e senso di colpa, fragilità e nascondimento; Aldo, che alla fine torna, il marito che non ce la fa, incapace di annodare i lacci, un uomo calmo e pacato, che non ama discutere, che preferisce soprassedere su tutto, che non si arrabbia apparentemente mai, ma che in realtà è solo sfuggente, sfuggevole, vile e spaventato. Fallimento emotivo, aridità sentimentale, dolore e rabbia, che portano ognuno dei protagonisti ad uscire sconfitto da questa guerra inutile, nel segno di un dispendio di energia rancorosa e malata, nutrita dall’idea dannosa e sadica che bisogna rimanere legati anche quando a tenere insieme sono lacci sfibrati e irrimediabilmente
danneggiati
, anni tremendi colmi di litigi, recriminazioni, cattiveria e sadismo. E tutto questo davanti a due figli, che pagano il prezzo più alto di questa devastazione, per le scelte del padre e della madre, incapaci di fatto di essere e restare genitori comunque pur non essendo più coppia, di trasmettere sentimenti autentici e una pur parvenza di speranza e riscatto, serenità e forza, stille di felicità e rinascita prive di rimpianto e rancore: nulla resta dentro il romanzo, se non il buio opaco della resa incattivita e rinunciataria. Il dolore dei figli sembra quasi un dogma, dentro pagine in cui da vittima Vanda diventa loro carnefice, e proprio ai suoi figli infligge il proprio dolore con effetti più perversi di quelli subiti per l’abbandono del padre, relegandosi esclusivamente al ruolo di madre, di fatto incapace di esserlo davvero e di pensare anche alla propria vita se non legata a quell’unico uomo.
Letto d’un fiato in una notte e poi quasi dimenticato, questo libro riemerge oggi e diventa una lezione, nel segno di tutto ciò che si può essere e diventare, dopo la fine di un matrimonio, nonostante il dolore, nel rispetto di se stessi, dei figli e, non ultimo, dell’altro e delle sue scelte, per quanto discutibili. Perché non sono i lacci sfibrati da riannodare che mantengono i legami, né i sensi di colpa ad impedire di sciogliere i patti se divenuti solo aridi contratti, ma le scelte volute dentro una vita autentica, per quanto dolorosa, in delicato equilibrio tra libertà e senso di responsabilità, sofferenza e rinascita.

Una lezione che tutti dovremmo fare nostra, consapevoli del fatto che ogni persona che abbia gli strumenti culturali e sociali per farlo, ogni donna, anche una moglie, può ribellarsi, reagire, non sognarsi neppure di alimentare la sofferenza dei figli perché il padre è andato via, cercarsi un’altra vita, sola o con un altro compagno, crescere, viaggiare, affrancarsi, divorziare, risposarsi, soprattutto perdonare, lasciare dipendenze, abbandoni, rancori e rimpianti alle proprie spalle, rinascere. Vivere, semplicemente vivere, che è un dovere, prima ancora che un diritto, per tutti, nell’assoluta convinzione che è solo l’autenticità dei sentimenti, la condivisione empatica e la fiducia in se stessi ciò per cui vale la pena vivere, tentando di trovare per sé e per le persone a cui si vuole bene un po’ di serenità e imparando che lasciare andare a volte è più sano e dignitoso che trattenere senza amore.
Perché nessuno possa essere tragicamente perdente, prigioniero di lacci che diventano cappi nel segno del fallimento amaro e ottuso di chi non è stato capace di ragionevole seppure doloroso riscatto e dovuta sebbene difficile rinascita; perché nessuno non finisca col dire come fa Vanda nel pieno della terza età, con un marito accanto tornato dopo anni senza amore e per viltà, un uomo per cui avrebbe dato la vita e che in realtà non vuole più da tempo, “ora che sono vicina agli ottant’anni, posso dire che della mia vita non mi piace niente”: perché questa è la vera sconfitta, al di là dei rimpianti e dei rancori che l’hanno nutrita.
Un libro da leggere per riflettere.

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