Siamo abituati a parlare di disturbo alimentare come fosse una malattia a sé stante, scardinata da altre patologie. In realtà, l’evidenza dimostra che i DCA puri sono davvero pochi, soprattutto oggi.

Nella maggior parte dei casi, il disturbo alimentare è associato a un’altra patologia, che sia un disturbo di personalità, dell’umore, ossessivo-compulsivo o post traumatico da stress. Questo ha spinto per anni molti specialisti a sottovalutare il DCA, considerandolo solo il sintomo di un disturbo cosiddetto maggiore: risolto quest’ultimo, risolto tutto.

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Malattia del comportamento alimentare o l’altro disturbo psichiatrico?

Sappiamo che le cose non stanno proprio così. Il cervello non è a compartimenti stagni e la diagnosi non è che il nome che diamo a un gruppo di sintomi spesso non esclusivi. Decidere cosa sia più importante, se la malattia del comportamento alimentare o l’altro disturbo psichiatrico è un approccio fallimentare, perché pretende di risolvere la complessità con uno schema che funziona solo sulla carta ma ben poco nella realtà.

Abbracciare la complessità della persona – e non solo del suo disturbo – è l’unica strada da percorrere quando si parla di mente, ecco perché diventa fondamentale evitare la gerarchia delle malattie psichiatriche ma adattare gli approcci di cura all’individualità di ogni paziente.

Il pre-trattamento in ambito DCA

In quest’ottica, è stato sviluppato il pre-trattamento in ambito DCA, focalizzato su quelle e quei pazienti affette anche da altre patologie che riguardano la regolazione emotiva.

Una volta stabilito che con queste pazienti il trattamento tradizionale è spesso fallimentare, il team della dottoressa Anita Federici ha applicato i principi della DBT (terapia dialettico comportamentale) al setting terapeutico, creando un protocollo che favorisce una risposta positiva al trattamento.

Si tratta di assicurarsi che il consenso al trattamento sia davvero informato, spiegare al paziente perché tutto ciò che gli sta accadendo ha senso, discutere gli aspetti neurobiologici dei disturbi alimentari e della disregolazione emotiva, parlare dell’importanza degli ambienti invalidanti, elencare i possibili ostacoli, costruire una vera relazione terapeutica e prendere una decisione condivisa rispetto ai passi successivi.

Pensandoci, si tratta di intraprendere azioni mirate a produrre fiducia, consapevolezza ed empowerment nei pazienti, cosa che ogni buon medico dovrebbe fare, a prescindere dalla patologia.

Eppure, spesso tutto ciò non accade.

Iinfantilizzazione del paziente e paternalismo medico

Il problema dell’infantilizzazione del paziente e del paternalismo medico è ancora ben radicato e lo è ancora di più se riferito al mondo della salute mentale. La tendenza a mettersi in cattedra e somministrare terapie, accompagnandole da forbite sentenze in medichese incomprensibili ai più è un grande classico di certa medicina che sfrutta la superiorità culturale per stabilire una distanza reverenziale utile solo all’ego del professore di turno.

Causa di questo atteggiamento è anche la convinzione che la distanza emotiva sia necessaria a proteggere il curante e la sua obiettività, dimenticando che la relazione terapeutica è appunto una relazione, un rapporto, che implica impegno ma soprattutto comprensione da ambo le parti.

Lo aveva capito bene Marsha Linehan, stimata psichiatra e psicologa statunitense, inventrice della DBT.

L’aspetto sorprendente – ma in fondo non così tanto se si considera che per capire a fondo la mente spesso è necessario aver vissuto determinate situazioni – è che Linehann è stata lei stessa un’ex utente psichiatrica affetta da disturbo borderline di personalità, come racconta nel suo “Una vita degna di essere vissuta”, edito nel 2021 da Raffaello Cortina Editore.

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