Quando ho deciso di impegnarmi attivamente per la salute mentale e i disturbi alimentari avevo da poco concluso l’ennesimo ciclo di psicoterapia. La mia psicoterapeuta mi aveva rispedita nel mondo con un caustico

“non hai più nulla da fare qui”

che all’inizio mi ha disorientata. Ho passato talmente tanti anni della mia vita in terapia che l’idea di andare sola per il mondo mi atterriva e nemmeno lo trovavo giusto: insomma, noi gente psichiatrica non siamo mai guarite del tutto, no?

La verità è che, nonostante io avessi paura ad ammetterlo, potevo finalmente camminare con le mie gambe e la fine della terapia era una sorta di messa alla prova, una terapia in sé. Ci preoccupiamo tanto della dipendenza da farmaci ma raramente riflettiamo su quanto terapie infinite, che durano dieci, vent’anni diventino a volte – non sempre – una scusa involontaria per non provarci sul serio.

Il significato della parola “guarigione” dai disturbi alimentari

Ho riflettuto molto sul significato della parola guarigione quando si parla di salute mentale e disturbi alimentari. Sono consapevole che per molti utenti e persino per molti clinici, la guarigione intesa come assenza totale di sintomi è considerata praticamente impossibile. Io non sono d’accordo. Certo, se per guarigione intendiamo un cambio radicale di personalità per cui da riflessiva diventi superficiale, da analitica diventi impulsiva e da amante delle routine diventi avventurosa o viceversa, allora è davvero molto difficile, concordo.

Ma se per guarigione intendiamo uno stato di equilibrio in cui non c’è più traccia dei pensieri ossessivi sul cibo e sul corpo, in cui l’umore è legato alle contingenze e non a un’alterazione biochimica, in cui si riesce ad affrontare la vita senza appoggiarsi al disturbo, beh, allora esiste eccome ed io ne sono la prova.

Ecco perché mi ha fatta molto arrabbiare leggere l’articolo di Michela Marzano su La Repubblica relativo alla morte per anoressia di Emanuela Perinetti, in cui sostiene che dal disturbo alimentare non si guarisce mai del tutto, che i pensieri ci saranno per sempre, che si continua a pensare di dover meritare il cibo.

Mi ha fatta arrabbiare perché, se è legittimo che lei racconti la sua storia, non può farla diventare tutte le storie. La mia storia – e quella di tante altre persone che ho conosciuto in questi anni di attivismo – è diversa. Molto diversa.

Eppure chiunque è più portato a credere alla sua versione che alla mia. Perché?

Perché in questo mondo abitato dalla cultura della dieta, immaginare che una persona non abbia pensieri sul cibo e sulla magrezza sembra impossibile in generale, figuriamoci per chi ha sofferto di DCA. E’ un pensiero logico e legittimo ma non tiene conto di un fattore importante: chi ha sofferto di DCA, se la terapia è stata una buona terapia, ha imparato a decostruire ogni pensiero indotto dalla diet culture. Ha imparato a riappropriarsi del proprio istinto. Ha imparato a mettere uno spazio tra il proprio corpo e i commenti altrui.

Chi è guarita o guarito da un DCA si è costruita una cassetta degli attrezzi con dentro tutti gli strumenti necessari a proteggersi. Questo non significa non avere momenti di nostalgia per quando la vita sembrava più semplice, perché c’era la malattia a fare da ponte tra te e la realtà. Non significa non guardare ogni tanto la propria immagine allo specchio sospirando. Significa guardarsi indietro e scegliere comunque il presente, costantemente, ogni giorno. Significa sentirsi solide sulle proprie gambe, pronte ad affrontare la realtà con altri strumenti, non certo quelli della malattia.

Proprio come mi ha detto la mia terapeuta. Consiglio il libro Drogati di cibo di Armando Piccinni, che accosta i DCA a vere e proprie dipendenze e che analizza le varie tecniche mediche e approcci per la guarigione.

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