I disturbi alimentari sono malattie complesse. Sono malattie psichiatriche a tutti gli effetti ma, a differenza delle altre patologie mentali, si appoggiano a comportamenti e credenze sul cibo, sul corpo e l’estetica, condivise dalla maggior parte delle persone.

La magrezza è, da sempre o quasi, considerata un valore in sé, perché legata al concetto di salute, controllo, longevità. Al contrario, la grassezza è considerata un disvalore, perché accostata alla pigrizia, alla mancanza di controllo, alla malattia. Nelle librerie e online spopolano libri e app sul digiuno intermittente, ovunque ci si giri si trovano pubblicità di pillole per dimagrire, tutine per ridurre il giro coscia, consigli di esperti e non su come controllare la fame.

Anoressia, digiuno, bulimia

Che cos’è, all’atto pratico, una persona malata di anoressia se non una digiunatrice professionista? E che cos’è una persona malata di bulimia se non qualcuno che ha imparato a compensare gli eccessi?

La verità è che dietro a questi comportamenti alimentari non c’è  – o almeno non solo – il desiderio di avere un bel corpo da infilare in una taglia 40 ma una patologia della mente che si riflette sulla persona nella sua interezza e non solo nel suo rapporto col cibo.

Riuscire a riconoscere un DCA quando lo vediamo dall’esterno e non ci sono elementi visivi immediati  – come un sottopeso molto evidente – non è semplice, proprio perché è facile nasconderlo sotto un tappetino fatto di azioni considerate virtuose: evitare carboidrati e grassi, limitare le calorie, bere tanta acqua, non mangiare schifezze, allenarsi regolarmente in palestra.

La linea sottile che separa salute e malattia, l’estetica

Proprio questa ambiguità, questa linea sottile che separa salute e malattia, preoccupazione legittima per il proprio corpo e ossessione, bellezza e decadimento, ha favorito l’estetizzazione di un disturbo alimentare in particolare: l’anoressia nervosa.

L’anoressia nervosa non è il disturbo alimentare più comune, tutt’altro: sono molte di più le persone malate di bulimia e binge-eating. Eppure, nei film e nelle serie, è quasi sempre di anoressia che si parla. E lo si fa perché l’anoressia è la malattia del perfezionismo, perfetta nel suo essere patologica, quella che più di tutte ha un arco narrativo coerente nella storia e nelle immagini, con un peso che – man mano che la storia avanza – trascina verso il climax e ricorda sempre di più la morte.

Indugiare sulla spina dorsale e le costole, sugli zigomi sporgenti, sulle guance scavate, scegliendo controluce che le evidenzino e le drammatizzino, può dare molta soddisfazione a un regista o a un direttore della fotografia, molto più che fotografare un corpo che parte e arriva normopeso, come spesso accade nella bulimia nervosa.

Questa estetica delle ossa, figlia di un nemmeno troppo segreto culto della leggerezza e fragilità femminile, trova la sua corrispondenza pop – o forse sarebbe meglio dire trash –  nei video delle giovani TikToker malate di anoressia e ricoverate in centri e ospedali, che ballano mostrando i loro corpi emaciati e sfoggiando il sondino naso-gastrico come fosse un accessorio di lusso.

Nei balletti di queste novelle Barbie sondino glitter, spogliate della drammaturgia cinematografica e dei chiaroscuri artistici, emerge una pornografia disturbante, in cui il sotto testo psichiatrico colora di marcio – quantomeno per gli occhi più attenti e informati –  le immagini rosa shocking.

Eppure i followers crescono e le ragazze, lusingate, ammirate e anche insultate, continuano a postare contenuti, trasformando la loro malattia in talento remunerato e finendo per legarcisi ancora di più.

Un paio di film che delineano l’evoluzione dell’estetica del corpo anoressico: Primo Amore, di Matteo Garrone, 2004 e Fino all’osso (titolo originale: To the bone), di Marti Noxon, 2017.

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