Quest’anno abbiamo perso due grandi maestri dalla saggezza visionaria: lo scienziato e scrittore James Lovelock, morto tre mesi fa, e l’antropologo e filosofo Bruno Latour, morto due settimane fa.

I loro lavori, Gaia – nuove idee sull’ecologia di Lovelock e La sfida di Gaia di Latour, sono l’eredità che ci hanno lasciato, con la quale dovremo mettere in discussione fino in fondo il mondo attuale e costruire un’idea possibile di futuro da consegnare ai giovani.

Da circa quindici anni mi dedico allo sviluppo e alla promozione della geoetica in tutto il mondo. Quando parlo di geoetica mi riferisco ad un’etica della responsabilità dell’essere umano verso il sistema Terra.

Una geosofia, una sapienza del funzionamento della Terra, che nell’essere umano si traduce in phronesis aristotelica, una saggezza capace di indirizzare le scelte, una saggezza del vivere la Terra, che presuppone la consapevolezza della posizione e della condizione umana nella grande architettura naturale.

La geoetica sottolinea la necessità che si stabiliscano principi e valori di riferimento comuni tra gli individui, dal momento che non si può prescindere dalla loro dimensione sociale, di interazione e di organizzazione comunitaria.

La responsabilità è il ponte che lega la coltivazione delle virtù dell’individuo (la geoetica è etica della virtù) e la sua azione nell’area vasta delle relazioni in cui è immerso (la geoetica è anche un’etica della responsabilità, ovvero della presa in carico consapevole delle conseguenze del proprio agire in un sistema di relazioni complesse, che verranno inevitabilmente modificate dalle proprie scelte).

Definirsi defensores terrae, custodi del pianeta e della natura, può nascondere una forma di duro antropocentrismo mascherato da ecocentrismo rigido, a volte intransigente, e tradire il permanere di quell’idea culturale di separazione tra noi umani e ciò che è altro da noi, che ha scavato un solco percettivo tra essere umano ed essere non-umano, tra noi e la natura, vivente e non vivente.

Credo piuttosto che siamo compartecipi dell’essere naturale in una relazione di continuo scambio tra noi e l’altro, senza soluzione di continuità, capaci di definirci anche identitariamente come specie naturale.

Non possiamo negare di essere certamente antropocentrici (almeno sul piano cognitivo), ma siamo anche biocentrici (nel nostro prediligere la vita animata all’essere inanimato) ed ecocentrici (capaci anche di cogliere il valore del tutto più che delle sue singole parti costituenti), come pure geocentrici, o meglio geacentrici (del resto in questo universo non abbiamo altra dimora che Gea, la Terra, almeno per il momento).

Siamo poliedrici, siamo tutto insieme, ma non ne siamo consapevoli. E se lo fossimo, consapevoli, saremmo semplicemente umani, integrali, autentici, terrestri.

Gea, la nostra madre Terra, è un concetto trasversale a molte culture umane. Un sistema complesso, un’inestricabile rete di relazioni, in cui la parte si sviluppa nel tutto e il tutto si modifica incessantemente nell’evoluzione delle sue parti.

Parlare di etica, di geoetica, in particolare oggi, significa per me contribuire a scrivere un nuovo modo di percepire e di pensare il mondo. Perché il mondo, così com’è non funziona più. Troppe fratture e relazioni strappate, troppe prevaricazioni e disuguaglianze, troppa morte e sofferenza. Ovunque, non solo nel nostro biasimevole occidente, ritenuto causa di tutto, nel bene e soprattutto nel male, come raccontano i Fridays for Future sul nostro magazine.

Parliamo di crisi ecologica, sociale, energetica, economica, morale, geopolitica… Troppi termini per evitare di misurarsi con ciò che chiaramente è una crisi dell’essere umano, dei suoi riferimenti etici, culturali, educativi, sociali, economici.

La crisi ecologica è al contempo crisi dell’ecosistema naturale e dell’essere umano, che ne è parte integrante. La crisi dell’ecosistema umano, ormai esteso all’intero pianeta, e del soggetto che lo costituisce, pur nella diversità delle sue modalità espressive, scuote, dilania, ferisce mortalmente anche l’ecosistema naturale. Inevitabilmente.

L’Antropocene diventa antropocrisi, disorientamento, impotenza, rassegnazione dopo l’eccitazione di secoli di affermazione, orgoglio, predominio, diventa cammino sul filo sottile, impercettibile, dell’incertezza, della possibilità.

Possiamo ancora scegliere
tra il disastro e un nuovo mondo

Possiamo ancora decidere di continuare ad alimentare il processo distruttivo in atto, o usare la nostra straordinaria creatività per arrestarlo. Il nostro futuro sta nel cogliere e imparare a gestire questa ambivalenza, nella consapevolezza dell’imprevedibilità della storia umana.

Dovremo rinnovare il nostro lessico e riscoprire il significato profondo delle parole, inventare una nuova società, globale, inclusiva, che comprenda anche le entità non umane, costruire una nuova etica che riscriva il nostro far parte della natura, un’etica verso la Terra: una geoetica. Proprio come ci hanno insegnato Lovelock e Latour.

Il 20 ottobre si è chiusa la sesta edizione del Festival dello Sviluppo Sostenibile, promosso dall’ASviS (Allenza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile), che ha previsto più di 1000 eventi e messo a punto importanti documenti. Tra essi: tre quaderni (uno sulla transizione ecologica, un altro sulla salute, infine uno sull’educazione sostenibile e la cittadinanza globale) e alcuni report su infrastrutture, consumi e produzioni sostenibili, sicurezza e salute. Tutte le pubblicazioni le trovate qui.

Dal festival è arrivata anche la proposta al nuovo parlamento di creare un istituto di studi sul futuro, idea nata dalla constatazione delle difficoltà che incontrano i giovani a dare prospettive concrete alla loro vita a causa della mancanza di offerte lavorative e delle preoccupazioni che derivano dall’urgenza di affrontare i numerosi problemi ambientali, economici e sociali.

Un istituto, questo, che dovrebbe focalizzare la sua attenzione sullo sviluppo di politiche per le future generazioni, che sappiano affrontare e superare le diverse crisi, e sull’affermazione del principio dell’equità intergenerazionale.

Partecipare al festival in streaming (l’evento di chiusura può essere visto qui) mi ha portato a riflettere, tra geoetica ed ecologia, su una umanità ricca di idee, iniziative e propositi, ma che, disorientata e impaurita, fatica a trovare senso e speranza nel suo futuro. Ecco perché non possiamo perdere la rotta indicata dalla saggezza visionaria di Lovelock e Latour.

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