Questa raccolta di liriche cinesi antiche me l’ha consigliata Cesare Pavese.

Il primo maggio del 1948 scrive nel suo diario, il Mestiere di Vivere: “Spiegai a M. L. [Maria Livia Serini] le ragioni della poesia naturalistica cinese – 4000 anni di lirica identica – spiegai la struttura magica di pensiero e società cinese, la corrispondenza tra potere e identificazione con il territorio, la continua realtà di monte, bosco, palude, fiume, animali ecc. che forma la sostanza di quella umana. L’occidente ha sempre preferito l’uomo alla natura. Poesia narrativa con eroi. Scoprì il paesaggio col romanticismo, cioè l’identificazione (magica) con la natura”.

Ecco le parole giuste per farmi correre a recuperare questo testo. Rapporto fra umano e non umano, dimensione tanto lontana nel tempo e nello spazio da essere (per me) una scoperta, considerazioni attente di Pavese – sensibile al paesaggio in poesia – da verificare… tutte ottime motivazioni.

Ho quindi adesso davanti a me in prima edizione (1943) Liriche cinesi (quattordici furono le ristampe in quindici anni) opera tradotta e curata dalla sinologa Giorgia Valensin sulla scia del lavoro fatto in ambito anglosassone da Arthur Waley di cui l’autrice riprende in parte la riflessione sul come rendere il verso dal cinese.

Il periodo coperto è 1753 a. C. -1278 d. C. Si parte dal Libro delle Odi (Valensin scrive che equivale a Omero per gli occidentali) e sono 305 canzoni scelte – forse da Confucio in persona. Si passa poi per Qu Yuan, il primo dei grandi poeti cinesi, alla vasta produzione sotto la dinastia degli Han, all’età di transizione (220-613 d.C.) nella quale la Cina del nord guerriera e la Cina del sud raffinata si polarizzano maggiormente, fino ad arrivare all’età dell’Oro (cioè dei T’ang, 618-905 d. C.) e a una piccola antologia del poeta Po Chu, chiudendo con la Dinastia dei Sung.

Sarà per l’ampio ventaglio di epoche, ma in effetti questo libriccino, che è una piccola perla, è un campionario di rappresentazioni della relazione umano-non umano.

C’è il paesaggio in empatia con la voce poetica in qualche modo simile alla concezione magica romantica – come la moglie di Su Wu che si lamenta del fatto che il novello sposo vada al fronte mentre l’ambiente attorno le fa eco:

il vento freddo sconvolge le lunghe erbe autunnali / la cicala agonizza / i trilli dei grilli si seguono / aggrappandosi a un ramo morto / la brezza si leva e turbina e strappa ramo e cicala”.

In altri componimenti la natura e gli esseri umani seguono il ciclo delle stagioni, scrive ad esempio Li Po, celebe poeta del’era T’ang:

Nel terzo mese la città di Sien-yang / è ricoperta da un denso tappeto di petali / In primavera chi ha il cuore di piangere solo? / Chi di affacciarsi, senza aver prima bevuto, ad una vista simile?”.

In altri ancora il paesaggio è tutto ciò che resta di uno spazio urbano/umano distrutto. Scrive Tsao Chih:

Mi arrampico fino alla cresta del Monte Pei Mang / e guardo in giù sulla città di Lo-yang / A Lo-yang, oh, come tutto tace! Palazzi e case tutte incenerite / mura e cinte sfondate, rovinate”.

Oppure si articolano delicatissime immagini simboliche, come la lucciola di Yu Che-nan:

Un tenue lume scintillando nuota, lì volteggia una lucciola, con ali lievi fragili, nelle tenebre luccica, perché ha paura di restare ignota”.

Ma il naturale non è immobile, anzi è in perpetuo, ciclico movimento e muove gli umani vivi, come scrive Tao Yun:“Tempie stagioni, che siete / Voi che incessantemente mutate la mia vita? / Voglio alloggiare sempre in quella conca, là dove autunni e primavere passano / Inosservate”. Muove anche i corpi dei morti: Tu Fu raccontando la guerra dà questa immagine: “i corpi dei figli si sfanno con l’erba nei campi”. E non tutti i paesaggi sono uguali: struggente è il componimento di Chang Fung-Shen sul viaggiatore che torna a casa e trova rupi, lago, boschi, ruscelli e piante a lui familiari che lo rinfrancano.

Più di ogni altra cosa, a me sembra che la componente di queste liriche lontana (ohimè) dall’oggi è una certa familiarità tangibile con il mondo naturale. Per l’oggi intendo sia la vita di tutti i giorni, sia la consapevolezza impegnata, politica ed estetica dell’ecopoesia – quella corrente poetica nata dalla stessa esigenza della cli-fi. In Liriche cinesi, in ogni epoca trattata, spesso i poeti partono con un’immagine naturalistica che scivola con una facilità quasi impercettibile nel simbolico (come La Lucciola sopra). Il fine non è descrivere la natura o rendere (invano) l’ambiente su pagina, ma qualunque sia l’argomento trattato (la guerra, l’amore, il vino, la morte) c’è un immaginario collettivo di persone estremamente competenti riguardo all’ambiente – in termini di specie, di nomi, di luoghi definiti, di atteggiamenti, di rituali, di saperi. Sotto il vestito descrittivo c’è un immaginario collettivo.

Difficile è trovare equivalenti occidentali, a mia memoria. Virgilio oscilla fra una dimensione realistica e una idilliaca sia in Bucoliche che in Georgiche. John Clare ci va vicino per il panpsichismo e per il mettere ogni forma di vita sullo stesso piano bypassando la scala naturae – ma le sue poesie sono naturalistiche, qua invece il ventaglio è più ampio. Neanche Pavese stesso ci si avvicina, per quanto il movimento dal naturale al simbolico gli interessasse. Aveva l’intenzione ma non la competenza, dato il suo essere a metà fra città e campagna e a livello culturale sbilanciato verso la città e curioso della campagna.

Oggi il valore dominante è la presa di coscienza di quanto l’umano sia distante dal non umano, l’ecopoesia è intrisa di questa distanza. Per capire quanto poco siamo in sintonia con l’ambiente forse bisogna rileggere le poesie dei tempi in cui il rapporto umano/non umano era di grande familiarità.

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