Ora, qui, la mia voce meridiana rivolta al vespertino del mondo, narra delle città invisibili, opera di Italo Calvino, riscrivendo le intenzioni e le sue città che diventano visibili in un piccolo vicolo di una città vecchia del Sud, dove la sua architettura futura, che odora di porto, reinventa parole, immagini e visioni.  

disegno (tecnica mista) attribuito a Wifredo Lam (collezione privata)

I re non credono a tutto quello che gli si dice. Marco Polo ha sedotto il re dei tartari Kublai con la sua esplorazione esistenziale. Non c’è ascolto e inganno, solo visione che sottrae ogni senso di ambasceria lasciando solo la malinconia leggera del viandante che va alla ricerca di città invisibili da inventare.

Sprofondare in ricordi di spezie e odori di animali fantastici e creature che verranno, Star man futuri che tornano dal passato con la fragilità e gli occhi di David Bowie. Ogni meraviglia sprofonda nelle rovine di chi sopravvive.

I reportage emotivi di Marco Polo spaccano la muraglia di Kan, come in un torneo di carte magiche divorate da cariddi voraci per vincere la sconfitta di ogni sovrano metropolitano che resiste alla corruzione dei virus che vietano ogni respiro d’affetto.

Marco Polo aveva la voce nel corpo

Ogni sentimento era un muscolo teso, in tensione contro ogni canto di animale. Le sue tasche erano casseforti di doni e meraviglie. Luccichii e carne viva colorate, giochi e alchimie. Ogni viaggio una passione necessaria di un destino intelligente e artificiale, con il fuoco di ardere ogni membra umana sensibile al freddo, ogni brivido tagliato sotto la tempesta dove i salmoni, con la faccia da poeti, arrostivano all’abbandono di un amore di pescatore, impiccatosi al lampione del porto da dove non tornava più nessun fantasma, affondato dopo la sua esplorazione alla ricerca di aironi neri da salvare da imperatori di latta.

Il sultano poteva trasmigrare in epoche e città future, ogni periferia diventava città visibile alla sua speranza di interpretare i sogni di ogni segno incerto. Sprofondare nell’affondo di una città profonda come una pagina di Vangelo da scrivere. Una profezia cieca senza acrobazie di funamboli senza nome, partorienti di civiltà remote ancora da venire.

Ogni velo, a ricoprire zigomi e sensualità di donna e stupore, poteva mostrare la forza tribale di spermatozoi distillati dalle superstizioni di stregonerie isteriche di un inquisitore paladino oscuro della paura di un seno dritto, capace di puntare contro un cuore fascista in rovina.

Ad ogni primavera Marco Polo imparò una canzone abbracciando alberi e mangiando becchi di merli e carne di pappagallo. La sua lingua era una ballata popolare di Dylan. Il Gran Kan sognava ogni sua immaginazione reale, ogni eco di solitudine urlata contro una roccia su un dirupo era tavola biblica da non seguire.

Ogni senso diventava ariete e capricorno, bilancia e toro, voce sola di un passato che sarebbe tornato a dare un senso all’impero di carte napoletane in bilico sui tarocchi di Jodorowsky e scacchi di cavalieri con il profilo bianco e nero di Bergman. Ma ogni mente tradisce i suoi fantasmi mentendo sui ricordi di una memoria residua senza emblemi e verità.

Che fine è scritta per l’impero di Kan?

la copertina del disco Aladdin Sane di Bowie

Il veneziano chiude gli occhi e disegna con le dita l’emblema significato del governatore dell’impero di sabbia.  Il sire non teme le carestie ma la violenza mafiosa della corte. Teme chi squarta un lupo per indossare una pelliccia al collo senza l’alibi di battere una strada.

Un’epoca senza tacchi a spillo, solo lame e pugnali che perforano il tallone dei trampolieri di Fellini, che ogni notte tormenta il sultano ed i suoi sogni con donne velate dal grande sedere. È questo il paese lontano del viaggiatore veneziano che rivela a Kublai, ogni vino straniero è semantica della vendemmia in onore dei santi salentini che non conoscono ancora il bene.

Com’è lontano il ieri, com’è lontano il domani, com’è lontano l’oggi. Crollano le chiese, crollano gli asini sotto il peso feroce dei cannibali nel giorno di Pasqua. Tutta la storia non sapeva ancora che un pazzo avrebbe costruito un palazzo di marmo umano. Ogni pensiero di viaggio decade sotto la spirale di una canzone scritta sulla schiuma in mezzo al mare. Ogni piede si rovina in fango, ogni brezza è uno sputo di Venere in catene.

Marco Polo soffia il vento fuori da una casa di paglia che brucia. Arriva la sera a rinfrescare ogni paura di dimenticanza. E poi arrivano gli occhi a ricordarci di aver vissuto al tempo di Kublai. Nessuno conosce il significato di una tundra, c’è solo il ricordo di montagne e arcipelaghi disegnati su mappe da museo.

Smettere di viaggiare e iniziare a sognare città che verranno, città che non sono mai esistite, città senza ghetti, città senza notte, città senza sirene, città senza immaginazione. Il sultano e il veneziano potevano anche stare in silenzio, inventarsi parole da non dire con certosina noncuranza della cura di un ragionamento rabberciato.

Un discorso solitario, senza risposte, senza domande, senza timori di guardare il mondo che sarebbe stato senza la pace, senza la mescolanza del sangue, senza la leggenda dell’uomo caduto sulla terra allattato da un animale con le ali. Senza la scusa di stabilire le ragioni di un potere e di una rivoluzione.

Kublai comprese che non c’era nulla di grande in un impero se non la memoria. Ruminare di essere dimenticati, di cancellare le mappe, le strade e le ossa di una città che non è mai stata. Sentire il suono muto di una voce potente che inonda ogni terra, capovolgere ogni amaca e la sua attesa sotto il sole.

Fumare una pipa e colorarsi gli occhi di ambra, raccogliere le piume di madre da un cuscino dove ogni cervicale rende l’aria umida e la pioggia una salvezza di dolore. Invisibili sono le città, invisibili le risposte, invisibili ogni quartiere, invisibili le strade, i viaggi, la conoscenza, il porto, la nave. Invisibili i padri, invisibile Venezia e i suoi giochi in legno. Invisibili ogni paura di bambino.

Un vortice, una vertigine, un vuoto. Kublai Kan è pronto a svuotare la mente da ogni ricordo, Marco Polo aspetta di cancellare ogni parola che viene dal passato.

La morte – Tarocchi di Marsiglia

Non c’è spiegazione per ciò che non si può e non si deve immaginare, non c’è viaggio da compiere, non c’è viaggio da iniziare, non c’è viaggio da approdare. Non c’è passato da passare, non c’è itinerario da compiere. Non c’è giorno compiuto da compiere.

Le città future non ci saranno perché non c’è stato mai il futuro nella speranza di un viaggiatore alla ricerca di luoghi da estraniare, ogni luogo posseduto senza possedere. Il passato prossimo è una litania da imparare a memoria a scuola ma nessun racconto lo racconterà perché già perduto, dimenticato.

Ogni memoria uccisa è città estranea che non sarà. Ci si perde in questo viaggio, si piange di passato. Si teme di futuro. Si muore cancellando quello che non abbiamo voluto vedere, che abbiamo voluto cancellare. Ogni vita potrebbe essere la mia, ogni città quella che non ho abitato, ogni statua, fontana, pietra, tutto quello che un uomo avrebbe potuto vivere in quel tempo prima del tempo.

Marco Polo si aggira per la mia città, l’ho riconosciuto dagli occhi chiusi. Ferma la gente per strada, chiede di poter indossare le loro giacche. Un tentativo ipotetico di altra vita senza l’esistenza di Marte. Solo così potrebbe salvare il suo futuro ed essere un giorno un’altra anima in un’altra città. Essere qualcosa di altro in un altrove. E tutta la vita che non è stata? Forse sarà. E tutta la vita che è andata perduta? L’occasione che potrebbe ancora essere.

Il viaggio di oggi è il desiderio di ritrovare e ritrovarsi in un futuro. Città invisibili, città possibili. Vite invisibili, vite possibili. Domani, forse, in quel mondo impossibile, fra l’umanità impossibile. Quelle città attraversate con la mente da Marco Polo sono molto più reali di quelle viaggiate e raccontate nei libri di storia. Un pezzettino di specchio da dove guardarsi indietro e immaginarsi ogni solco di pelle futura. E tutto quello che non abbiamo avuto, tutto quello che non abbiamo voluto.

In questa commozione del silenzio Marco Polo apre la sua valigia e lascia parlare ogni souvenir. Un bazar di guerra, di poesia, di mare, di satelliti, di paure, di piccole felicità.

Il mercatino del tempo felice. Sabbie colorare, erbe da fumare e bere. Stoffe odoranti di corpi amati. E tutto il vuoto dello stupore di Kublai resta nella fuga di sentirsi immobile, mai nato, fermo in quella città senza vita dove l’immaginazione non basta a scrivere una canzone.

Il sultano ci provava a reinventarsi una memoria ascoltando la fisicità degli oggetti mostrati da Marco Polo. Il pensiero è un mare, trasporta cose in luoghi lontani. Futuri. Le cose si fanno parola, si fanno pensiero, si fanno ricordo. Il mare ce li ha portati fino a qui.

Fra le città che erano allora invisibili ed oggi possibili. E si può sentire il gusto di ogni vocale e consonante che, masticate tra il palato e la lingua, diventano suono e voce di un mondo che non abbiamo visto ma che ricordiamo e possiamo reinventare.

Marco Polo nella banconota da 1000 lire

La geografia delle città invisibili

La geografia delle città invisibili si spezza allo strappo della memoria per ogni libro di Italo Calvino venduto al banco, nostalgia insieme alla collezione di vecchie banconote di mille lire che ci ricordano il gusto dei gelati blob. Kublai, il Gran Kan non è mai esistito, per questo è reale. Ogni segno, ogni domanda, ogni interrogativo, ogni risposta è nelle pagine girate dal vento.

Marco Polo è l’abito indossato ad ogni carnevale per reinvintarmi una vita. E dov’è finito il futuro? Su quali rocce si è infranto? Dove le parole si sono stagliate in mille pezzi di vite attese?

Ogni pezzo di immaginazione perfetta ora giace nascosto nei libri spediti. A viaggiare sono stati solo i libri. Le città invisibili sono ogni volume letto di notte al lume di una torcia nascosta sotto le lenzuola orientali.

Ogni impero è il suo confine interrotto da un nuovo viaggio, un segnale mesciuto allo spazio, al tempo, alla ricerca infinita e smisurata di uno specchio rotto.

La bellezza dell’imperfezione. Il viaggio dentro ognuno di noi. La fine ed il confine.

Condividi: