Se mi dessero la possibilità di tornare indietro nel tempo per incontrare qualcuno del passato, sicuramente nella top three della mia lista ci sarebbe Cesare Pavese. Mi piace pensare di questo straordinario scrittore che, nel miglior stile del suo amato Ovidio, il 27 agosto 1950 abbia smesso la pelle di essere umano per tramutarsi in libro. Probabilmente negli incompresi Dialoghi con Leucò, l’unico dei suoi volumi che lo soddisfacesse.

Cesare Pavese certo non si occupava di clima, ha deciso di morire qualche anno prima dell’inizio degli studi di Keeling e del boom economico. Come antenato delle riflessioni sulla cli-fi, e quindi sul rapporto fra essere umano e ambiente, ci interessa in quanto disperato esploratore dello spazio rurale del pre-boom, nonché di altre strade narrative che non fossero il puro realismo. Il suo ideale era quello di integrare “la ricchezza di esperienze del realismo” con “la profondità di sensi del simbolismo”, così scriveva nel Mestiere di Vivere, il suo diario postumo.

I luoghi e il mito

Per Pavese, ognuno ha un repertorio di simboli, dati dall’incontro fra le cose, i paesaggi, i gesti, le parole e i significati del proprio inconscio. Il tempo e le esperienze stratificate aumentano i significati associati a un simbolo. Seduto sulle spalle di giganti come Baudelaire, Proust e Jung, lo scrittore langarolo dedica pagine e pagine di riflessioni alla primissima infanzia: è lì che secondo lui l’essere umano forma i suoi miti personali, che lo forgiano e lo condizionano per il resto dei suoi giorni ed esprimono il suo stare al mondo.

I miti fanno parte dell’irrazionale, del subconscio, sono le intuizioni del bambino riguardo a sesso, rapporto fra generi, violenza, morte, sangue. I luoghi quindi interessano Pavese in quanto consacrati al mito e quelli di cui lui stesso scrive hanno caratterizzato la sua infanzia. Il ricordo denuda il mito tramite l’epifania: riconoscerlo è conoscere meglio se stessi in relazione al mondo. Psicanalisi. La catarsi finale sta nel riconoscere i propri miti, e come per le tragedie greche, accettare il dover essere.

Cesare Pavese non considerava davvero possibile il lavoro d’intervento sull’inconscio. Quanto a se stesso, si considerava segnato e quasi vittima incurabile di sventura per via dei propri miti. Tenete conto che parliamo sempre di un uomo al quale probabilmente oggi avrebbero diagnosticato la depressione maggiore.

Quello che a noi interessa invece è il tempo del mito, il tempo ciclico delle tragedie greche – o quello stagionale dei contadini langaroli. In un certo senso Pavese vive sulla pelle quello che gradualmente è successo all’occidente intero: è legato al mondo arcaico dei contadini ma – per estrazione familiare borghese e cittadina – non è parte di esso. Qualcosa si è rotto. Succede a Cesare e succede ad Anguilla, il protagonista della Luna e i Falò.

“Le anguille ritornano al luogo dove nacquero per riprodursi”. Così il nostro che, dopo essere emigrato in America, ritorna nelle sue Langhe native dopo la guerra. Lo guida Nuto, una specie di Virgilio rurale, l’amico di un tempo che mai si è allontanato. “Le colline seducenti e fantastiche delle Langhe sono impregnate dei gesti, del lavoro e della vita dei suoi abitanti in un’osmosi mitica e assoluta tra l’uomo e la terra congiunti in un unico destino, indissolubile” scriveva Laurana Lajolo. Peccato che Anguilla da quel mondo sia ormai tagliato fuori.

Oramai staccato dalla civiltà contadina, non può che constatarne l’unheimliche e il distacco. Quello stesso universo è uscito dal tempo ciclico ed entrato nella storia con la guerra civile e con il cambio di segno del falò, da rito per risvegliare la terra a rogo. La civiltà contadina si sfalda e, con quest’entrata traumatica nella storia lineare, si accentua la distanza fra umano e non umano.

Cesare Pavese cercava di trovare una lingua per parlare degli archetipi dell’inconscio personale e collettivo, un modo per tradurre l’irrazionale nel linguaggio. Forse è per questo che i suoi romanzi, come nota anche Laura Caccavale rileggendo La Spiaggia, spesso sembrano qualcosa e si scoprono poi essere qualcos’altro, come la polisemia dei tarocchi o dei segni zodiacali. Del resto anche il loro autore era così: molti (incluso Calvino) lo scambiavano per un maschio alfa tutto d’un pezzo mentre dentro sé nascondeva un rapporto con il proprio maschile decisamente conflittuale ed era semmai, ohimè, in pezzi.

Post-mortem, negli anni Cinquanta del realismo zdanoviano privilegiato dagli intellettuali di sinistra italiani, Alberto Moravia accuserà Pavese di decadentismo, dipingendo lo scrittore langarolo come un cattivo compagno che attribuisce sminuenti caratteristiche irrazionali agli anelli più deboli della società. Ma lo zdanovismo non era certo il filtro migliore per leggere davvero Pavese: oggi i miti di quel mondo, come ad esempio tutta la ritualità legata al grano, li studiano gli antropologi e le antropologhe. Ma soprattutto oggi sappiamo che proprio in quegli anni una frattura c’è stata, la civiltà contadina italiana si è davvero sfaldata. Paradossalmente lo sappiamo anche grazie a quanto ha insistito sul concetto Pasolini, altro feroce detrattore di Cesare Pavese.

Dell’eredità intellettuale dello scrittore langarolo a chi si occupa di letteratura e ambiente rimangono le riflessioni su come narrare nel modo migliore l’inconscio collettivo del mondo contadino che oggi non ci è più familiare. Dalle pagine del Mestiere di Vivere ci resta anche una domanda importante: “Quando una civiltà non è più contadina quali saranno i rapporti radicali della sua cultura?”. Su cosa poggiano le radici del nostro odierno inconscio collettivo, che si percepisce staccato dal non-umano?

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