Una sola parola, coronavirus. In pochissimo tempo si è appropriata del nostro vocabolario, è nella classifica dei top hashtag, passa di bocca in bocca, contagia velocemente, eppure è talmente generica che è capace di indurre in confusione. Non certo gli scienziati, abituati a utilizzare un linguaggio che non deve mai perdere in rigorosità, chiarezza, precisione, completezza e non a caso è definito linguaggio scientifico. La confusione di chi invece con le parole ci lavora e per questo dovrebbe maneggiarle con cura. Seppure con un linguaggio capace di “arrivare” alla maggior parte di chi ascolta.
Non dovremmo mai dimenticare però che il linguaggio serve alla decodificazione del mondo esterno e a una rappresentazione avanzata del mondo. Almeno di una parte del mondo con la quale intendiamo confrontarci e che vogliamo conoscere. La lettura del mondo si configura attraverso i linguaggi, ed è con quello scientifico che questa volta dobbiamo cimentarci e fare uno sforzo per raccontare la realtà e conquistare un pezzo di verità, pur nella consapevolezza che il linguaggio e la realtà non riescono mai a coincidere interamente. Perché la realtà rispunta sempre nuova e si presenta sempre più ricca e complessa, e forse anche per questo che bisognerebbe evitare di banalizzarla con un linguaggio approssimativo che genera fraintendimenti e false realtà.
Allora proviamo a fare chiarezza nelle parole e nei concetti, perché la rappresentazione di un mondo catastrofico viene anche dalla non comprensione, dalla scarsa permeabilità alla conoscenza dovuta a una crescente dealfabetizzazione di massa, che trova il suo rito propiziatorio nella tv surrettiziamente popolare o nel balbettio caciarone, scambiato per una idolatrata vox populi, dei produttori di fake news sui social media.
Ora la parola da maneggiare con cura è proprio coronavirus con le sue sfaccettare e le tante implicazioni che riguardano noi esseri umani. I coronavirus sono una grande famiglia di virus che gli scienziati però conoscono da un bel po’ e possono causare diverse infezioni, dal comune raffreddore a malattie più gravi. Eppure parliamo genericamente di coronavirus, Covid-19, SARS-CoV-2 come se non ci fosse alcuna differenza. La differenza c’è, eccome. Il rigore e la chiarezza del linguaggio scientifico ci insegnano che siamo alle prese con un nuovo coronavirus, che il suo nome è SARS-CoV-2 e che sviluppa una malattia chiamata Covid-19. Sigle che affanno!
Allora, il SARS-CoV-2 è il nome scientifico di questo nuovo coronavirus, nuovo perché è un ceppo che fino ad ora non era mai stato identificato nell’uomo. E un virus a RNA (acido ribonucleico) e non a DNA (acido dessoribonucleico) rivestito da un capside e da un peri-capside attraversato da strutture glicoproteiche che gli conferiscono il tipico aspetto a corona, e per questo fa parte della grande famiglia dei corona virus.
SARS (Sindrome respiratoria acuta grave in inglese Severe acute respiratory syndrome) è apparsa per la prima volta nel 2002, ed ecco perché questa volta accanto a CoV (Coronavirus) c’è il numero 2.
La sigla Covid-19: “Co” sta per Corona, “vi” per Virus e “d” per disease che in inglese significa malattia, e il “19” indentifica l’anno, il 2019 che è quello in cui per la prima volta è stato isolato.
Ricerche approfondite hanno dimostrato che il coronavirus SARS deriva da virus animali ed è diventato patogenico per l’uomo. Diversi coronavirus noti circolano negli animali, ma molti di questi non provocano patologie nell’uomo.
La comparsa di nuovi virus patogeni per l’uomo, precedentemente circolanti solo nel mondo animale, è un fenomeno ampiamente conosciuto (chiamato spillover o salto di specie) e si pensa che possa essere alla base anche dell’origine del nuovo coronavirus SARS-CoV-2. Al momento la comunità scientifica sta cercando di identificare la specie animale dalla quale è stato trasmesso il virus all’uomo.
Purtroppo i ricercatori ad oggi non hanno ancora sviluppato una cura con terapie specifiche contro il nuovo coronavirus SARS-CoV-2, proprio perché sono pochi mesi che conoscono questo virus. Si cerca quindi di curare i sintomi della malattia (così detta terapia di supporto) in modo da favorire la guarigione fornendo ad esempio supporto respiratorio con ossigeno, oppure testando delle combinazioni di farmaci antiretrovirali, come quelli usati per l’HIV, per trattare le persone ricoverate.
Per ora abbiamo tutti un compito: essere responsabili. Evitare di mettere in circolo con comportamenti dissennati questo orribile organismo, che non ha una vita automa ma ha bisogno di altre cellule per riprodursi.
Un virus è un parassita intracellulare obbligato, tre parole non una. Ma rendono bene l’idea di come si comporta, lui ha bisogno di un essere vivente per esistere e riprodursi.
In questo tempo sospeso, mentre gli scienziati e la medicina cercano di fare del loro meglio per trovare una cura e un vaccino, noi possiamo recuperare l’arte dell’ascolto e ascoltare le parole della scienza. Parole che appartengono al linguaggio della ricerca, un linguaggio che per definizione si muove sul terreno dell’incerto e del non ancora conosciuto di cui però abbiamo un grande bisogno. Facciamo uno sforzo: mettiamo da parte le nostre piccole mediocri rassicuranti certezze, comprese quelle del nostro vocabolario quotidiano. E se troppo spesso è utile pensare che è meglio semplificare drasticamente così da sbarazzarsi senza troppi scrupoli dell’angoscioso problema del rigore del linguaggio scientifico, proviamo almeno ad essere capaci di sostituirlo con l’approssimazione intelligente di parole giuste al posto giusto.