Little Fires Everywhere è una miniserie in otto episodi prodotta e interpretata da Reese Witherspoon e Kerry Washington e tratta dall’omonimo romanzo di Celeste Ng (in Italia: Tanti piccoli fuochi, Bollati Boringhieri, 2018). La serie è disponibile nel nostro paese dal 22 maggio in esclusiva su Amazon Prime Video ancora in versione originale e sottotitolata.

La trama: Elena e Mia sono due donne agli antipodi. La prima (Reese Witherspoon) è una giornalista altoborghese che ha rinunciato alla carriera dei sogni per prendersi cura dei suoi quattro figli, impeccabile, naive, e naturalmente perbenista e maniaca del controllo, da sempre cresciuta a Shaker Heights, un ricco sobborgo di Cleveland, in Ohio. L’altra (Kerry Washington) è un’artista bohémien afroamericana, madre single, bisessuale, libera e anticonformista, con un passato oscuro. Le loro vite si intrecciano quando Elena, che si dice progressista e di gran cuore, dà in affitto a Mia e a sua figlia un appartamento di sua proprietà a un prezzo irrisorio e presto assume Mia come collaboratrice domestica. Un gesto che ha più a che fare con certe dinamiche di potere e con una morale tutta borghese fatta di pietà e desiderio inconscio di redenzione, piuttosto che con la vera generosità.

Ecco il punto: Elena è l’incarnazione del privilegio. È bianca, americana, ricca e in salute, eterosessuale, cisgender. A tavola con i figli non perde occasione per raccontare l’entusiasmo con cui ha partecipato alla marcia su Washington “Fu straordinaria. C’erano giovani, anziani, bianchi, afroamericani, leader religiosi, attivisti, sindacalisti. Una splendida varietà di persone, tra cui il Dr. King, ovviamente”, eppure è la prima a chiamare la polizia dopo aver visto una “donna afroamericana dormire a bordo di una vecchia auto parcheggiata” e a offrire a quella stessa donna un lavoro come domestica (house-manager, si corregge subito).

Come tutte le persone nate e cresciute in condizioni di privilegio, quindi con maggiori opportunità e senza subire discriminazioni, Elena non solo non percepisce la sua condizione di privilegiata ma crede, a torto, che la sua visione del mondo possa essere universalizzata e adattata indistintamente a tutte le persone diverse da lei.

Il privilegio è anche questo: non vedere il problema, perché non ti riguarda. Dall’alto del suo privilegio, Elena si autoproclama moralizzatrice e sorvegliante dei corpi e delle azioni altrui. Storce il naso davanti alle libertà e alle scelte (anche se subite) che non corrispondono al suo modo di intendere il bene e l’etica. Non accetta (spesso non comprende) la possibilità dell’esistenza di visioni plurime o di immagini di realtà nuove. Rimuove a tutti i costi le differenze di razza o di classe, senza mai esimersi dall’indicare una direzione, un’idea di giustizia, un modello a cui tendere (il suo). Mentre lo fa è compiacente, materna, premurosa. Se le viene detto che è classista o razzista, dirà pure che ha un debole per gli afroamericani, poi tornerà a parlare della marcia su Washington strizzando gli occhi (including Dr. King, of course).

La sua vetta illuminata è l’unico punto di vista, ma anche l’unico modo di stare al mondo. E chi non arriva a farne parte ha alle spalle solo scelte di vita sbagliate, azioni moralmente discutibili, oppure una scarsa predisposizione a gerarchizzare bisogni e priorità. È questo pensiero che spinge Elena a indagare sul passato di Mia, con in testa la presunzione di redimerla o per la sola vanità di sentirsi migliore di lei.

Little Fires Everywhere ci mette davanti l’idea di privilegio (a tratti stereotipata) e ci spiega quanto sia illusorio pensare di abbattere le differenze e le discriminazioni rimanendo su un piedistallo e assumendo un unico punto di vista. I privilegi non sono dei meriti, né qualcosa di cui vantarsi. Non sono neanche una colpa. Rappresentano solo delle condizioni favorevoli rispetto al mondo in cui viviamo e non dipendono da noi. Essere uomo in un mondo sessista è un privilegio, così come essere bianco in un mondo razzista o essere etero in un mondo omofobo.

Non solo: nel suo combinare e intersecare molteplici forme di discriminazione (Mia è allo stesso tempo donna, povera, bisessuale e nera), la serie introduce al concetto prezioso di intersezionalità.

Per intersezionalità si intende il disegno complesso in cui gli effetti di diverse forme di discriminazione (razzismo, sessismo, classismo ecc.) si combinano e si intersecano tra loro. In altre parole: le differenze coesistono e categorie come genere, razza e classe sono meglio comprese quando sovrapposte e mutualmente costitutive piuttosto che se isolate e distinte. 

Anche qui: è una questione di punti di vista, ma non solo. Non basta guardare la realtà e la sua pluridiversità con occhi diversi, si tratta invece di smascherare, mettere in discussione e smantellare tutti i piccoli e grandi accumuli di pregiudizi, credenze e tabù sedimentati nel nostro pensiero e nella nostra cultura. Si tratta di dissodare gli automatismi, i privilegi, le facili certezze e immergerci invece in uno spazio di ascolto e di testimonianza delle differenze in cui non dobbiamo a tutti i costi essere i protagonisti.

Solo allora, come suggerisce la figlia di Mia sul finale, “vedremo la porta, l’uscita, e saremo liberi di volare via”.

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