27 gennaio: ricorre la Giornata della Memoria per commemorare le vittime dell’Olocausto. Il 27 gennaio 1945, infatti, le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz.

Alle ragazze e ai ragazzi della generazione Z può sembrare un tempo lontano ere geologiche, ma in realtà stiamo parlando del secolo scorso, neanche 100 anni fa, un’epoca insomma in cui i nostri nonni (quello di noi Generazione X) erano già adulti e si barcamenavano all’interno di una guerra mondiale in corso.

Proprio mentre i nostri nonni e le nostre nonne erano vivi e i nostri genitori erano solo bambini, accadeva qualcosa di cui è importante fare memoria: veniva stabilito per legge, in Germania ma anche in Italia, che la diversità etnica, religiosa, l’orientamento sessuale e l’identità di genere (qui ne parla Anna Segre) fossero condizioni sufficienti per poter decidere della libertà, della vita o della morte di una persona.

Gli anni passano e i testimoni diretti, i sopravvissuti o gli scampati alla cattura, alla prigionia o alla morte sono sempre meno. Ma abbiamo ancora la fortuna e il privilegio di poter ascoltare dalla voce di alcune e alcuni di loro il racconto diretto di questa pagina orribile della storia umana in cui alcuni uomini hanno deciso che dei loro simili potevano essere declassati al grado di animali da macello o di oggetti animati per sperimentazioni.

Una storia particolare è quella di Lucy Salani (o come preferisce essere chiamata lei, Luciano), la donna transessuale, oggi 97enne, più anziana d’Italia che è sopravvissuta al Lager di Dachau. La storia di Lucy è rimasta praticamente sconosciuta fino a che due registi romani, Daniele Coluccini e Matteo Botrugno, la hanno scovata casualmente e hanno deciso di raccontarla nel docufilm C’è un soffio di vita soltanto, prodotto da Blue Mirror e Bielle Re.

La locandina del docufilm “C’è un soffio di vita soltanto”, per la regia di Daniele Coluccini e Matteo Botrugno

Il documentario prende il titolo dal verso di una poesia scritta da Lucy Salani a 14 anni: “Riposan le foglie ingiallite/su un mondo di cose appassite/c’è un soffio di vita soltanto”.

Il docufilm è anche la storia di un incontro e di un’amicizia, quella tra Lucy, Daniele e Matteo, iniziata in piena pandemia e che continua ancora oggi con un quotidiano scambio di affetti.

Lucy Salani parla in prima persona dalla sua casa alla periferia di Bologna, tra oggetti quotidiani e memoria di una lunga vita. Dagli archivi domestici spuntano foto ingiallite che parlano di un ragazzo, che all’epoca si chiamava Luciano, e che avrebbe vissuto una delle esperienze più terribili per un essere umano: vivere segregato e vedere, giorno dopo giorno, le vite delle compagne e dei compagni di sventura depauperate di ogni valore.

Ascoltare la storia di Lucy Salani fa vivere una straniante dicotomia: da un lato è la memoria del Novecento, un secolo contraddistinto da terribili guerre, calamità, ma anche da incredibili accelerazioni e progresso e da un lunghissimo periodo di pace, almeno in Occidente; dall’altro è contemporaneità che pulsa, perché le convinzioni di Lucy Salani, espresse spesso con enorme semplicità, sono oggi oggetto delle rivendicazioni più attuali e della riscrittura dell’immaginario collettivo.

Abbiamo avuto la fortuna e il privilegio di incontrare Lucy e i registi del docufilm e porre loro alcune domande peri lettori di Rewriters.it.

Inziamo da te Lucy (o Luciano se preferisci). Il 27 gennaio si celebra la Giornata della Memoria. Tu sei stata vittima del nazifascismo e deportata a Dachau come disertore. Sei sopravvissuta. Il docufilm che parla della tua vita si chiama C’è un soffio di vita soltanto e cita un verso di una poesia che hai scritto a 14 anni. Pur nell’orrore della deportazione e del campo di concentramento, riuscivi a intravedere un soffio di vita? Cosa ti ha consentito di andare avanti?
Ho deciso che avrei vissuto la mia vita facendo tante esperienze. Ero all’interno di una compagnia  e facevamo numerosi spettacoli di cabaret. Ho iniziato a viaggiare il più possibile per non pensare. Ho capito che era importante fare il maggior numero possibile di esperienze. L’importante era di avere un tetto sopra la testa e qualcosa da mangiare nella pancia. L’ombra di Dachau, però, mi ha sempre seguita.

Per definirti usi spesso la parola intruglio. Vuoi spiegarci cosa intendi? E in che modo l’essere un intruglio ha guidato la tua vita?
Sì, mi sono definita un ‘intruglio’ perché dentro di me fin da bambino prevaleva la mia parte femminile. La mia famiglia mi ha fatto crescere con la mentalità da maschio e con i giochi da maschio. Ma a me fin da piccolo piacevano le bambole. Ho sofferto tanto perché mi ritrovavo ad andare contro la mia natura che era evidente fin da subito. 

Quali sono stati i momenti più difficili nella tua vita?
A Dachau, quando insieme ad altri prigionieri dovevamo prendere i corpi delle persone che morivano durante la notte, caricarli su un carretto e portarli al crematorio in cui c’erano i forni. Ho visto buttare nel forno persone ancora vive. Era un incubo che ricominciava ogni giorno. Ancora ho quelle immagini davanti ai miei occhi. 

Sei la donna transessuale più longeva d’Italia. Dal tuo punto di vista, come è evoluta la condizione delle persone transessuali negli ultimi 100 anni?
Fortunatamente sono stati fatti molti passi in avanti. Ho visto tante cose nella mia vita ma quello che vedo attualmente è davvero assurdo. Dopo battaglie fatte e numerose vittorie resto esterrefatta dalla propaganda di certo partiti politici. Fanno di tutto per frenare la nostra civiltà. Mi dispiace solo che non avrò tanto tempo per vedere quando il nostro mondo diventerà finalmente libero. Libero di poter esprimere la propria identità e di poter amare chi vuole senza sentirsi giudicato e considerato un cittadino di serie B. 

La tua vita ha tanto da raccontare e tanto da testimoniare alle nuove generazioni. Vuoi mandare un messaggio ai più giovani?
Ai giovani consiglio di non arrendersi mai e di non sentirsi malati o sbagliati. Ogni persona deve lottare per la propria libertà e per essere se stessi.

Qualche domanda ai giovani registi Daniele Coluccini e Matteo Botrugno.

Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, registi di “C’è un soffio di vita soltanto”

 Daniele, Matteo, come avete scovato la storia di Lucy Salani e cosa vi ha colpito?

Daniele Coluccini: Abbiamo scoperto la storia di Lucy Salani per puro caso. Una sera mentre stavo scorrendo la bacheca di Facebook mi sono imbattuto in una breve intervista che aveva rilasciato anni prima su YouTube, non mi ricordo neanche per quale testata, nella quale parlava della sua esperienza nel campo di concentramento di Dachau. Ho mandato subito la storia a Matteo e abbiamo cominciato a fare delle ricerche per cercare cosa era stato pubblicato su un personaggio così incredibile eravamo sicuri fossero state già fatti progetti importanti.

Invece non abbiamo trovato nulla di significante. Sì, era stata fatta qualcosina ma niente di importante. Abbiamo, quindi, deciso di andare a conoscerla. Siamo riusciti a contattarla tramite conoscenti comuni e abbiamo passato un pomeriggio con lei in casa sua a Bologna. Abbiamo preso un caffè con lei e le abbiamo detto che volevamo fare qualcosa sulla sua storia anche se  non sapevamo ancora bene cosa. Abbiamo comunque colto l’occasione per farle una prima intervista.

Siamo poi tornati qualche tempo dopo con le telecamere e abbiamo fatto una seconda lunga intervista di tre giorni nella quale Lucy ci ha raccontato tutta la sua vita. Abbiamo capito subito che avevamo davanti una persona straordinaria: la sua esperienza nel campo di concentramento era solo una parte della sua vita. Ascoltando le sue parole, i suoi ricordi i suoi racconti abbiamo capito di avere davanti una vera testimone del Novecento. Più che una biografia di Lucy Salani, il docufilm è una biografia del 900, del secolo scorso vista dagli occhi di una persona particolare, vista dagli occhi di una persona unica.”

Ci sono diversi aspetti di estrema contemporaneità e di anticipazione dei tempi nella vita di Lucy (o Luciano come lei preferirebbe). Quali sono i principali secondo voi?Matteo Botrugno: sì, sono ci degli aspetti di estrema modernità nel pensiero di Lucy, benché sia una persona del 1924. Parlare con lei genera un po’ un cortocircuito mentale: da una parte ti sembra di parlare con tua nonna, che ti fai i tortellini e che ti prepara da mangiare, dall’altra hai di fronte una persona che ha vissuto la strada, ha fatto la prostituta, una di quelle persone che hanno sempre la risposta pronta, che non si trovano in difficoltà in nessuna situazione.

D’altro canto Lucy è nata in un momento in cui la parola transessuale non esisteva. Ha voluto essere anche cose che ancora oggi sono una frontiera, come quella del nome: non ha voluto cambiare il nome sul documento dove è rimasta ‘Luciano’, anche se poi alla fine tutti la chiamano Lucy o Luciana. Questo è un aspetto molto contemporaneo: oggi facciamo battaglie per affermare il non binarismo di genere. Lei o aveva teorizzato 50, 60 anni fa e con una semplicità disarmante.

Nel documentario dice una frase che secondo me è di una modernità pazzesca: “hanno provato tante volte a farmi cambiare nome; ho detto no perché il mio nome me l’hanno data i miei genitori”. Qui viene alla luce la nonna, un po’ legata alla sacralità della famiglia. “Ma perché una donna non si può chiamare Luciano?”, questa secondo me è una delle frasi più potenti; ti spiega in due parole, con una semplicità disarmante, un concetto che oggi è sulla bocca di tutti.

E’ stato difficile convincere una persona di 97 anni a mettersi in gioco e a raccontare la sua straordinaria vita?
Daniele Coluccini: no non è stato difficile convincere Lucy a raccontare la sua storia. Lucy Salani è una persona a cui piace molto la compagnia; è sempre stata abituata a vivere in compagnia, ad uscire, mangiare fuori anche se non è mai stata una persona benestante; è stata sempre circondata di persone, di amici e, quindi, le piace molto parlare, raccontare; come succede molto spesso con le persone anziane ricorda con molta nostalgia i tempi andati.

All’inizio era un po’ scettica, perché spesso diverse persone hanno cercato non dico di approfittarsi di lei, ma comunque di utilizzarla quando a loro faceva comodo, molto spesso in campagna elettorale quando dovevano sfoggiare questo monumento di storia e di memoria per poi abbandonarla il giorno dopo finita la campagna elettorale. Era giustamente un po’ diffidente ma poi piano piano ha capito che le nostre intenzioni erano buone. E’ nata una grande amicizia prima che cominciassimo a girare il documentario che è la conseguenza dell’amicizia che abbiamo creato con lei, non viceversa.

Perché è importante, oggi, nel 2022, raccontare la storia di Lucy Salani?
Matteo Botrugno: raccontare la storia di Lucy è fondamentale, in primis perché è una delle ultime testimoni dell’orrore dei campi di sterminio e dei campi di concentramento, ma anche perché la sua voce parla a tutti ed è importante che tante persone riescano ad ascoltare il suo racconto. Lucy Salani riesce a dire delle cose molto importanti con una semplicità disarmante e con una autorevolezza data anche dalla sua età; per questo le persone la sentono subito vicina nel momento in cui apre bocca.

La sua storia non parla solo alle persone che hanno identità trans o non binarie ma a parla veramente a tutti: è una persona che ha fatto della sua identità una bandiera; è una persona che ha sempre lottato per affermare la sua identità. Molte persone hanno trovato in lei un modello l’affermazione della propria identità e questo credo sia un grande messaggio di forza e di speranza perché, come dice lei “Se ce l’ho fatta io possono farcela veramente tutti!

Quale è il ricordo più vivido che avete del periodo delle riprese?
Daniele Coluccini: sicuramente è stato il momento in cui abbiamo finito le riprese ed eravamo nel campo di concentramento di Dachau. Avevamo appena finito di girare e lei ci aveva detto delle cose incredibili, che poi sono le ultime parole che dice nel film; fa una riflessione di una profondità incredibile sull’esistenza di Dio o sulla sua assenza. Questo è stato forse il momento più emozionante di tutte le riprese.

Un’altra cosa bellissima è stata che alla fine ovviamente siamo scoppiati tutti in un grande pianto liberatorio perché tornare con lei, con una sopravvissuta, in un luogo di morte come Dachau è stata un’esperienza veramente forte. Ci ha detto: “Vorrei avere dieci anni in meno per vivere altri dieci anni come questi ultimi due che ho vissuto con voi!”, perché è stata un’esperienza che l’ha fatta comunque vivere. Lei è consapevole di stare andando verso la fine della vita anche se lo vive con grande serenità e trasmette questa grande serenità a chi le è vicino. Durante le riprese a Dachau si sentiva che stava mettendo un punto con quel passato; si avvertiva anche la sua consapevolezza che quella sarebbe stata l’ultima volta che tornava in quel luogo. E’ stato veramente toccante.

Siete rimasti in contatto con Lucy, al netto della promozione del docufilm? Avete stabilito una relazione?
Matteo Botrugno: la relazione che si è stabilita tra noi è molto profonda; io e Daniele la abbiamo sentita e la sentiamo quasi quotidianamente. Le abbiamo raccontato come andavano le riprese. E’ molto attenta e vuole sempre sapere tutto. Quando la contattano per delle interviste, avedo qualche problema di salute, noi la chiamiamo e la aiutiamo a mettere le risposte in forma. Quindi la sentiamo per forza di cose.

Tra noi è rimasto veramente un rapporto profondissimo, tant’è che cerchiamo almeno una volta al mese di andare a Bologna a trovarla per portarla a cena fuori e farle passare un po’ di tempo in compagnia perché, come puoi immaginare, durante la pandemia è aumentata notevolmente la sua solitudine. Lei era una che fino ad un anno e mezzo fa guidava la macchina e adesso non riesce più a camminare bene. Quando andiamo su, la portiamo un po’ in giro, la aiutiamo a fare la spesa… Per noi l’esperienza umana supera di gran lunga quella cinematografica; questa è una delle cose che ti lascia un documentario rispetto a un film di finzione.

Cosa può insegnare ai millennial o ai ragazzi della Z generation la storia di Lucy? Daniele Coluccini: credo che possa veramente insegnare la forza di affermare se stessi. I giovani partono molto avvantaggiati in questo senso perché si muovono in un mondo in cui si cerca in ogni modo di abbracciare le diversità e far affermare ognuno secondo la propria specificità, la propria identità. Lucy è stata una pioniera in questo e credo che i giovani possano provare un grande senso di gratitudine verso chi prima di loro, e anche di noi, ha cominciato le battaglie che noi portiamo avanti oggi. Credo arrivi loro anche tanta forza e consapevolezza del fatto che queste battaglie ancora non sono finite e che ognuno di noi debba fare la sua parte per portarle avanti.

In un mondo di narrazione frammentata, veloce, fai da te, c’è bisogno ancora di spazio e tempo per raccontare le storie?
Matteo Botrugno: sì, c’è bisogno di raccontare. Lo vediamo dalla risposta del pubblico che ci stupisce sempre. Siamo tutti un po’ assuefatti a questa narrazione molto veloce, svelta e siamo presi da mille input e da mille questioni quotidiane. Però, poi, proiettiamo a Roma per tre giorni e in altre città questo documentario, relativamente indipendente, su una persona trans di 98 anni che è stata deportata in un campo di concentramento (quindi non esattamente un film della Marvel) e la risposta è stata incredibile: l’ultimo giorno, quando pensavamo che il pubblico sarebbe stato di meno e quindi avremmo dovuto lavorare di più in comunicazione, il passaparola su questa storia è stato talmente potente che gli spettatori sono accorsi in massa e praticamente non si riusciva ad entrare al cinema.

In periodo di pandemia, questo ci ha fatto riflettere sul fatto che le persone hanno ancora tanta voglia di avvicinarsi a questo tipo di storie; che si ha voglia di andare al cinema, spendere dei soldi per vedere qualcosa di diverso, passare un momento differente dallo stare a casa con il cervello spento e assuefatto a questo tipo di informazione mordi e fuggi. Anche questo è un bel messaggio di speranza per il futuro: speriamo che il cinema si riprenda un pochino perché al momento la situazione è veramente critica. Ma insomma, la risposta al documentario mi accende un piccolo barlume di speranza.

Un soffio di vita soltanto… Eppure questo soffio di vita ha portato sino a noi la storia potente, contemporanea, incredibile di Lucy/Luciano Salani.

C’è un soffio di vita soltanto può essere visto oggi, 27 gennaio, su Sky Documentaries alle 21.15 e nei cinema di alcune città italiane:

  • 27, 28, 31 gennaio – Cineteca di Bologna
  • 27 gennaio – Arsenale di Pisa
  • 27, 28 gennaio e 2 febbraio al Bloom di Mezzago (MB)
  • 1 Febbraio Arci Ferrara
  • 10, 11 e 13 febbraio Nuovo Eden Brescia.
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