E’ quasi impossibile pensare che, nell’evolutissima Europa, ci siano delle categorie di lavoratrici che sono state dimenticate perché ufficialmente non riconosciute come tali. Eppure è una storia vera, egregiamente raccontata da Stephen Frears e Peter Mullan in due film entrambi vincitori a Venezia.

E’ la storia delle ragazze irlandesi ospiti delle organizzazioni di carità gestite da suore. Tali centri, originariamente nati per accogliere temporaneamente le cosiddette donne perdute, si trasformarono nel tempo in luoghi di reclusione.

La riabilitazione e il successivo reinserimento nella vita sociale e lavorativa non ne furono più il fine principale, gli istituti divennero aziende a fine di lucro che approfittavano della mano d’opera gratuita per incamerare ingenti somme di denaro. Una delle attività principali era costituita dal lavaggio e stiraggio della biancheria.

Il mercato richiedeva sempre più mano d’opera, si pensò quindi di rimpolpare il numero delle penitenti includendo anche ragazze madri (alle quali venivano tolti i figli), donne vittime di stupro o con qualche disabilità, oppure ragazze considerate troppo frivole e disponibili. Queste povere disgraziate venivano internate a vita e sfruttate a tempo indeterminato.

Se possiamo in qualche modo comprendere che tali episodi fossero accettati dalle società del 18° e 19° secolo ove i diritti umani erano ben poco considerati, ci riesce invece inconcepibile il pensiero che queste organizzazioni siano esistite fino al 1996!

La vita all’interno degli istituti era durissima. Le internate venivano private del loro nome, chiamate con un numero – come fossero in un lager – o semplicemente con l’appellativo bambina.

Vivevano al freddo con pochissimo cibo, venivano punite e picchiate in continuazione, lavoravano allo sfinimento e spesso non vedevano nemmeno la luce del sole. Le donne erano isolate dal mondo e lasciate tra le grinfie di “caritatevoli” arpie.

Tutto ciò sarebbe stato già sufficiente a decretare questi istituti come inferno sulla terra, ma si sa, al peggio non c’è mai fine. Per una circostanza fortuita nel 1992 si scoprì che nel cimitero presente a Donnybrook, presso le Suore di Nostra Signora della Carità, risultavano più cadaveri di quanti non fossero conteggiati nei registri.

Vennero fatte diverse indagini e si scoprì che non solo erano state seppellite donne senza nome e identità, morte in chissà quale maniera (la politica di segretezza degli istituti religiosi impediva l’accesso ai registri delle penitenti), ma che venivano tumulati anche i neonati, frutto del peccato delle ospiti dell’istituto. Il concetto era semplice: si monetizzava dando in adozione il bambino, possibilmente a coppie d’oltre oceano, o ci si sbarazzava del fardello.

Ben 300.000 donne sono passate da questi istituti e la loro storia è andata perduta (o celata); il loro passaggio terreno è stato solo un susseguirsi di fatica e dolore, ma nessuno le ha piante.

Fortunatamente il ritrovamento delle tombe comuni ha dato il via a una serie di indagini (non solo in Irlanda) che ha portato a scoperte sconcertanti. Le atrocità commesse rimarranno purtroppo impunite, ma è stato quanto meno restituito il diritto al ricordo a quelle lavoratrici dimenticate dalla storia.

Per non continuare a dimenticarle, per conoscere il dramma profondo di ragazze lasciate appassire nel nulla, ci vengono in aiuto questi due straordinari film: Magdalene (2002), premiato con il Leone d’oro è il film che racconta le vicende dolorose di tre ragazze mandate in convento per espiare i loro presunti peccati.

Philomena (2013) è la storia raccontataci da una incredibile Judi Dench (premio Oscar) in cui una madre ormai cinquantenne tenta di ricongiungersi con il figlio che le avevano strappato dopo averlo partorito in un convento. Film premiato per la Migliore Sceneggiatura al Festival di Venezia.

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