Torna in libreria Arturo Belluardo con il suo nuovo romanzo Ballata per la sirena edito da Giulio Perrone, un romanzo oscuro e potente, che con un linguaggio intenso e poetico, ci narra una storia fantastica e crudele, disturbante e fascinosa al tempo stesso.

Protagonista è un avvocato duro e razzista, antisemita che viene richiamato in Sicilia, a Siracusa, perché sua madre è in fin di vita. La madre, sul letto di morte, gli rivela di essere una sirena e gli chiede di riportarla al suo mare. Su quest’innesco, si scatena una trama che oscilla tra la figura ancestrale della madre, quasi archetipica, i deliri rancorosi del protagonista, il ritorno alla terra natia, la riscoperta del mito e la purificazione nel mare. E’ una storia trascinante, con un linguaggio talmente ricco da spingermi a leggerlo ad alta voce e che, alla fine, mi ha fatto piangere a lungo. Ne parlo direttamente con l’autore, Arturo Belluardo.

Lisa Ginzburg ha definito il tuo un libro enigmatico, Paolo Restuccia ha parlato di linguaggio onirico. Arturo Belluardo è d’accordo con queste definizioni?
Credo profondamente alla sacralità della scrittura, la scrittura è l’atto creativo per eccellenza, quello che fa somigliare l’uomo a Dio, con la scrittura si arriva in ipogei di cui non conoscevamo l’esistenza, nella natura stessa dell’essere umano. E si ha accesso a realtà superiori e differenti, a ‘mondi lontanissimi‘ per citare Battiato dove il tempo e lo spazio non hanno alcun significato. E’ una sorta di discesa/ascesa misterica, che ti svela la tua essenza di essere umano.

Ed è una sorta di viaggio iniziatico quello che compie il tuo protagonista, un uomo disperato che, da violento e sessista, si trasforma man mano che si accosta alla figura mitologica della madre. E’ come se riscoprisse il suo io femminile e attraverso questo cambiasse la sua percezione del mondo e dell’umanità.
La scoperta dell’anima femminile del mondo, la shekinah della mistica ebraica, è un tema che mi appassiona da qualche tempo, da quando mi sono accostato agli studi cabalistici di Yarona Pinhas. A me interessava il rapporto con la figura della Madre, madre umana, madre terra, madre dea, madre mare, madre mito, madre altare, che anagrammato, diventa madre realtà. Il romanzo parte da una trasposizione narrativa della struttura di protezione del cervello, delle sue membrane, la Dura madre, guscio protettivo e resistente, e la Pia madre, la parte più delicata ed equorea.

Il protagonista all’inizio del libro è tutto scorza, aggredisce, morde preventivamente per non essere ferito. Si protegge come sua madre gli ha insegnato a fare per crescere, ma, man mano che si accosta a questa figura fragile e potente, in fin di vita e mitologica, man mano che rivisita la sua terra d’origine, Siracusa, man mano che ritorna al mare, scopre la bellezza della sua fragilità, dell’essere senza pelle. Alla fine, un guscio è una scorza che ci imprigiona l’anima e ci impedisce di accogliere la scintilla che dà senso alla nostra esistenza.

E la sirena? Perché hai deciso di utilizzare questa figura mitologica, che tanto è stata visitata dai grandi della letteratura?
Io sono partito dalla voglia di rivisitare quello che per me è il più bel racconto italiano che sia mai stato scritto, ‘La sirena‘ di Tomasi di Lampedusa.

Ma la Sirena dell’autore de ‘Il Gattopardo’ era un concentrato di erotismo e nostalgia. Io ho cercato di riviverla con uno sguardo contemporaneo, dei tempi guasti e malati in cui viviamo. Dove l’erotismo è stato sostituito da Pornhub.

E poi avevo la necessità di confrontarmi con la mia terra madre, Siracusa, una città greca, dover sono cresciuto a pane e Tragedia. Le fatiche di Ercole, l’Iliade e l’Odissea sono state le favole con cui sono cresciuto, non i Fratelli Grimm o Andersen. Anche se una delle mie sirene risente molto de ‘La sirenetta’ di Andersen, della sua vena tragica, di sacrificio. Un’altra fonte di ispirazione è stato anche il frammento di Kafka, dove Ulisse non sente il canto delle sirene perché loro decidono di tacere.

Il tuo libro è dedicato alla bellezza, alla giustizia e al jazz…
Mi rifaccio a una frase di Camus, citata di recente dal mio amato Goffredo Fofi.

«C’è la bellezza e ci sono gli oppressi. E per quanto difficile possa essere, io vorrei essere fedele a entrambi».

E’ una frase che sintetizza bene il lavoro che cerco di fare. Per me non c’è scrittura, se non c’è ricerca del linguaggio, ma non c’è scrittura se non si parla degli indifesi, se non interpone la penna a dire “Io non ci sto”. Mi piace la scrittura militante.

In ‘Minchia di mare’ parlavo di abusi sui minori, di devastazione ambientale, in ‘Calafiore’ riflettevo sul cibo come forma di potere e di sfruttamento e di come il potere ci usi e ci divori, qui tratto di razzismo, di emigrazione, di prostituzione del mare… Il jazz? Il jazz è la mia colonna sonora quotidiana e, per la prima volta, ho adottato un metodo di scrittura improvvisata: c’era un canovaccio di partenza, la base ritmica, ma era la batteria di Elvin Jones, il batterista di John Coltrane, che poi diventa dissonante, fuori tempo quasi, spezza i ritmi.

Dall’altro lato c’era il tema del personaggio, un misto di rancore e di nostalgia, ma soprattutto una profonda disperazione: sapevo bene quali erano i sentimenti che animavano il personaggio, ma al momento di scrivere mi lasciavo andare al piacere della parola, ad allargare gocce che cadevano fino a farle diventare pozze, includevo salti tonali, brusche cadute di suono, frasi spezzate a metà. Sono partito da Coltrane, ma poi ho esasperato sempre di più il drumming e le improvvisazioni, un po’ come fanno oggi The Sons of Kemet.

Nel tuo libro emerge una forte e dolorosa denuncia della devastazione del mare, del suo essere ridotto a pattumiera. C’è un elenco di rifiuti che occupa ben tre pagine del romanzo.
E mi sono pure tenuto, visto che l’entità del disastro è incommensurabile. Solo per fare un “piccolo” esempio, nel 1997 la nave container Tokio Express a causa di una tempesta ha rovesciato in mare 4.756.940 pezzi di Lego che ancora oggi vengono trovati e raccolti in giro per il mondo, (i ritrovamenti vengono denunciati sulla community Lego Lost At Sea ) milioni di pezzi di plastica indistruttibile… Per focalizzare l’attenzione ho usato la tecnica antica dell’elenco, come quello lunghissimo delle navi degli Achei nell’Iliade. Umberto Eco, ne “La vertigine della lista”, diceva che l’elenco si usa quando si vuole rappresentare qualcosa di cui non si conoscono i confini. Ci sono continenti di rifiuti che galleggiano nel mare, soffocano l’acqua, uccidono i pesci. Pensa che, pochi mesi dopo l’incidente della Tokio Express, un’altra nave container si è arenata al largo della Sicilia: e noi abbiamo avuto le coste sommerse da un milione di sacchetti di plastica di un supermercato irlandese con la scritta “Help protect the environment”.

Ma il mare di Arturo Belluardo è anche un immondezzaio di corpi, una tomba liquida…
Ogni volta che mi faccio una nuotata, che faccio snorkeling cercando cernie e attinie, non posso non pensare a quello che è diventato il Canale di Sicilia, un cimitero della disperazione. Tutte quelle persone che sono annegate cercando di approdare alle nostre spiagge in cerca di una vita migliore. E’ come nuotare nell’orrore. Dopo aver letto “La frontiera” di Alessandro Leogrande, la descrizione dei corpi sott’acqua, delle singole pose dei corpi sott’acqua, ho capito che anch’io dovevo prendere posizione con le mie parole: credo che il raccontare cosa accade sia molto più efficace delle immagini di un reportage, le immagini spariscono nel blob mediatico, le parole ti scavano dentro.

E a proposito di migranti, di migranti respinti, nel tuo libro appare pure un Ministro della Paura che parla come Salvini.
Ho finito di scrivere questo libro in piena pandemia, quando dell’emergenza migranti non importava più a nessuno e mi chiedevo se sarebbe stato considerato datato o retorico il mio obiettivo puntato sul dramma. Poi qualche giorno fa, Salvini se n’è uscito con il solito tweet contro gli sbarchi, e io gli faccio rispondere dalla mia personaggia, Sibilla Leone:

“Ma cu sì tu che ci vieni a insegnare a niautri come si trattano i mischinazzi? Noi, le persone che vengono qua le abbiamo sempre abbracciate, portate a casa. E se avevamo un pane gliene abbiamo dato metà, e se ne avevamo metà gliene abbiamo dato un quarto, e se non avevamo pane gli abbiamo dato un tetto e la paglia dove dormire. I loro picciriddi sono i nostri picciriddi, non sono canuzzi di cagna bastarda, canuzzi superchi da annegare in un fusto di petrolio. I picciriddi sono picciriddi, e ce lo dice una che picciriddi non ce ne ha”.

L’avvocato, il protagonista del tuo libro, subisce una catarsi, una mutazione profonda, scopre la pietà. Che fine ha fatto oggi?
Ha capito che la pietà in sé, se non è accompagnata dalla responsabilità di essere uomini, serve a poco. Probabilmente si è imbarcato come volontario su ResQ o gli ha donato tutti i suoi soldi.

Arturo Belluardo (Foto di Roberto Cavallini)

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