In sala dal 20 Aprile e in concorso all’imminente Festival di Cannes, Il Sol dell’Avvenire, il nuovo lungometraggio di Nanni Moretti, sta riscuotendo un buonissimo risultato di critica e pubblico.

La pellicola è quasi un ritorno alle origini, una summa del suo pensiero ma anche una riflessione profonda sulla vecchiaia, sul tempo che scorre inesorabile, sulla politica, sul senso di fare cinema oggi.

Come ricordava Flavio De Bernardinis nella sua monografia per il Castoro Cinema:

«….la poetica di Nanni Moretti ruota spesso attorno all’esigenza, avvertita violentemente da alcuni personaggi dei suoi film, di trovare una risposta concreta a una realtà circostante che conduce alla paralisi dei rapporti umani. Per rispondere a una mancanza, a un bisogno, alla paura, tali personaggi ricorrono volentieri ad una attività di simulazione, piccole messe in scena».

La trama è presto detta, Giovanni, anziano regista, si appresta a girare un film sui fatti dell’Ungheria del 1956, da qui si intreccia la vita privata, il rapporto sentimentale con la moglie oramai usurato, il confronto con la situazione politica, il rapporto cinema/vita, le idiosincrasie di una vita.

Non poteva mancare il riferimento a di Federico Fellini sia nelle musiche sia nella citazione circense, un fantasma che pervade l’intero film, un omaggio e una scelta forse dovuta un po’, come aveva fatto Woody Allen in Stardust Memories.

Nella suo nuova pellicola il regista romano ipertroficamente satura l’immagine di gag/simulazioni procedendo quasi per accumulo manifestando le sue idiosincrasie (le calzature, i dolci, il cinema spazzatura, il pallone, il canto, i rapporti interpersonali ecc).

Con inveterata lucidità riflette anche sul tempo che passa, sulla possibilità di partorire un cinema con una gestione sempre più autarchica, attorniato dai suoi amici di sempre. L’auto ironia diventa sempre più graffiante e decisiva come ricordava in una intervista del 1986:

«Trovo più interessante essere crudele con me stesso che con gli altri […] Gran parte della commedia all’italiana si è basata sulla presa in giro del soprammobile di cattivo gusto. Io, sia nei film che nella vita, sono assolutamente dalla parte di quelli che hanno il cellophane sulle sedie per non guastarle […] e non riesco proprio a prenderli in giro. A me interessa l’operazione contraria, ed in questo, credo, consiste quella benedetta “autoironia” di cui si parla sempre a proposito dei miei film: mi sono trovato a mettere in scena, a prendere in giro, un gruppo omogeneo a me, da un punto di vista sociale, generazionale, politico, se non addirittura me stesso».

Si diceva di un lungometraggio che guarda al passato citando le sue precedenti pellicole con coraggio, ironia (la coperta sul divano mentre guarda la TV la ritroviamo in Sogni D’oro, il circo Budavari che ci ricorda Palombella Rossa, solo per citarne alcune).

Nanni Moretti non ha paura di mettersi in gioco evidenziando anche il tempo che scorre, il protagonista Giovanni manifesta la sua vecchiaia inesorabile ma non rinuncia alle sue convinzioni.

Il cinema nel cinema, esperimento ormai consolidato nella filmografia morettiana, prescinde dal voler creare una robusta tensione narrativa predisponendo la macchina da presa fissa, usando il montaggio interno e facendo muovere i personaggi.

Una scena tra tutte diverte e ci fa pensare, quando Giovanni interrompe l’ultimo ciak dell’action movie, prodotto dalla moglie, che vede un personaggio che deve eseguire un’esecuzione a morte. La questione improvvisamente si fa etica, non è un discorso solo sulla rappresentazione della violenza ma una riflessione, che nessuno ormai più si pone, circa l’etica del cinema, cioè come filmare una sequenza, dove posizionare la macchina da presa, perché una certa inquadratura abbia un senso, un significato. Un ritorno alla riflessione sul cinema che ricorda le teorizzazioni del critico André Bazin sul montaggio proibito.

Il cinema forse ha smarrito questo, una sua etica, una ponderazione profonda su se stesso. Secondo Nanni Moretti rimane solo la ricerca dell’effetto what the fuck che una dirigente di Netflix dice essere mancante nella pellicola di Giovanni.

Nanni Moretti pone mille dubbi e interrogativi e termina con una chiusura corale quasi ottimista ma nello stesso tempo amara, che vede insieme quasi tutti gli attori dei suoi lungometraggi che camminano, forse, verso un nuovo avvenire.

L’arte non è più l’ultimo rimedio/rifugio alle ferite della vita ma è solo l’utopia, che in fondo ha ancora un senso, di meravigliarci e permetterci di inseguire ciò che ci rende felici, con la consapevolezza, postmoderna, che probabilmente non ci riusciremo.

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