Michele Di Giacomo è un attore originario di Cesena e della sua terra ha ereditato la passionalità e la pragmaticità che lo contraddistinguono, portando in scena una modalità di essere tipicamente italiana che oggi troviamo sempre più raramente.  

Chi lo conosce sa che, dietro il bel vocione e il grande sorriso, c’è un giovane uomo riflessivo e molto attento alle relazioni tra pubblico e teatro.

Questa intervista è stata scritta di notte, tra una tisana e un sospiro verso il cielo milanese, pensando che alla fine vale la pena lottare per sperare in un mondo teatrale migliore. Dobbiamo farlo!

Michele Di Giacomo, oltre ad essere un attore, è anche direttore artistico di FUME (festival multidisciplinare a Cesena) e direttore artistico di LECITE VISIONI, rassegna milanese sensibile alle tematiche lgbtqia+. Riesci a raccontarti dicendo di te, senza raccontare di te?
C’è un piccolo rito che faccio prima di andare a dormire, in momenti particolarmente intensi di lavoro. Mi siedo al tavolo della sala da pranzo, luce bassa, e segno un foglio con una riga per il lungo. Lo divido a metà. Nella metà di sinistra scrivo le cose che ho fatto durante la giornata (Scrivere la mail a… Telefonare per… Fare le prove di…) nella metà di destra scrivo quelle che dovrò fare il giorno dopo. Poi cancello tutte le cose fatte. Solo allora mi alzo, preparo la moka per il giorno dopo, la metto sul fornello spento e vado a letto. È come se delegassi a quel foglio i miei pensieri, le mie preoccupazioni per le cose fatte e quelle ancora da fare e permettessi così alla testa di vivere la notte. Di sognare. Di fare spazio per il giorno dopo. E poi non è da sottovalutare la moka, pronta e solo da accendere, che ti aspetta la mattina!

Che relazione c’è tra l’essere un attore/regista/autore ed essere un direttore artistico? Io vivo le tre cose con lo stesso spirito. È come se fossero tre lenti di ingrandimento, che guardano lo stesso oggetto, ma con un raggio visivo diverso. Da attore vivo sul mio corpo le emozioni del racconto teatrale e le vivo in stretto rapporto con il pubblico. Da regista il mio pensiero è più sul creare il dispositivo che metta in relazione attori e attrici con il pubblico e di veicolare un punto di vista o a volte un messaggio, preciso. Come direttore artistico mi occupo di legare assieme le proposte artistiche vissute dagli e dalle interpreti, costruite da registi e registe, e di metterle in relazione con un territorio, con un pubblico e anzi di potenziarle all’interno di un racconto più ampio. In qualche modo anche la direzione artistica si occupa di realizzare uno spettacolo. Al centro però c’è sempre il teatro. Attraversare questi tre sguardi diversi mi fa capire molto cose sul teatro e sul suo senso oggi.

Cosa hai pensato quando ti hanno chiamato a dirigere un festival?
Ero felice. Ed ero stupito. In fondo per la media italiana sono giovane come direttore di Festival. Eppure… Ma l’ho voluta vivere, fin da subito, come un’opportunità per fare qualcosa di bello. Per trovare modi e forme per mettere in relazione artisti, artiste, pubblico, comunità, per provare a produrre nuovi progetti e nuovi pensieri. Un festival deve essere il luogo dell’incontro, della vita ma anche un’occasione per produrre pensiero. Al tempo stesso però ho sentito una responsabilità. Perché raccolgo un’eredità importante e perché Lecite Visioni mette al centro le tematiche lgbtqia+, parlando di diritti, di battaglie, di sconfitte, di persone. Questo mi impone impegno e sensibilità. Per questo mi sono messo subito in ascolto prima che in produzione. Per mesi ho visto spettacoli, incontrato persone, letto libri, sono andato a dibattiti e manifestazioni. A Milano sono molte le realtà sociali e le persone che si impegnano nell’ambito dei diritti ed era ed è importante per me ascoltarle e incontrarle.

Ci racconti in poche parole cosa vedremo quest’anno a Lecite visioni?
Vedrete un festival multidisciplinare e contemporaneo. Dal 3 al 7 maggio al Teatro dei Filodrammmatici di Milano. Sei spettacoli di cui tre di prosa, uno di danza e due performance, uniti da una traccia tematica: LIFE, STILE. Vita, ancora. Ogni proposta racconta vissuti ed esperienze di vita che ci aprono a temi lgbtq+ molto attuali come l’identità, la discriminazione, la sessualità, il queer. Con Due millimetri parleremo del delitto di Giarre tramite lo sguardo dei due interpreti Vinti e Muratore ; Catterina di Macaluso e Paoli, racconta la vita di Catterina Vizzani che a metà del ‘700 ha assunto l’identità di Giovanni Bordoni; Cloud tocca il tema del corpo libero e del corpo imprigionato con un riferimento alla persecuzione degli omosessuali in Cecenia; in Acanto una prima nazionale di Nicola Russo, un uomo e un ragazzo si raccontano in un centro di analisi per l’HIV; le Nina’s Drag Queen racconteranno, camminando, pezzi di storia Queer di Milano e poi con Lovers, dogs and rainbows Rudi van der Merwe ci porta in Sudafrica con un documentario biografico e una performance live in cui veste gli abiti della drag Doringrosie. Accanto agli spettacoli però ci saranno altri momenti che sono fondamentali per creare la dimensione di festival. Tre presentazioni di libri che si svolgeranno il 4, 5, 6 maggio alle 19:00, frutto della collaborazione con Libreria Antigone di Milano. Tre laboratori: quello di scrittura con Liv Ferracchiati, di drag con Rudi van der Merwe e di giornalismo con Stratagemmi prospettive teatrali. La lettura del premio Carlo Annoni 2022 che curerò io e che vede come attori Giuseppe Sartoni e quattro neodiplomati dell’Accademia dei Filodrammatici e della Paolo Grassi. Ed ogni giorno dalle 18:00, al bar curato da Noloso, sarà possibile gustare un aperitivo.

Cosa abbiamo (fortunatamente) lasciato del teatro del passato?
I protagonismi. La paura dei maestri. La solitudine. I sistemi di potere.

Cosa abbiamo perso del teatro del passato?
La profondità dei maestri. La cura e l’amore per la parola. La complessità. La lentezza.

Qual è la maggior preoccupazione quando pensi al tuo ruolo di direzione artistica?
La direzione artistica finisce il primo giorno di festival. Io posso immaginare come sarà, posso costruire progetti specifici per coinvolgere pubblici specifici. Posso pensare ad un programma che reputo vivo e stimolante. Ma poi non so se tutto questo racconto sarà vissuto realmente del pubblico e come. Perché alla fine il festival lo crea il pubblico. Nel modo in cui partecipa, in cui vive gli spettacoli e gli spazi fuori dagli spettacoli. Lo fanno gli artisti, chi partecipa ai laboratori o chi presenta i libri. È un’incognita. E come ogni incognita in parte mi preoccupa. Ma per questo pensiero non posso fare nessuna riga sul mio foglio della buona notte.

Cosa vorresti che dicesse il pubblico che frequenta il tuo festival?
L’ho sentito mio. Mi sono sentito accolto, accompagnato, rispettato. Ho riso, mi sono commosso, ho ballato. Ho conosciuto persone nuove, saputo cose che prima non sapevo e ho capito che la complessità è bellezza e che per ottenere diritti si deve camminare assieme, dando la mano anche a chi non conosco. E se non tutte queste cose assieme, almeno la prima e l’ultima.

Cosa significa essere referente culturale di un territorio/ comunità di persone?
Innanzitutto, significa provare a capirlo. Non si può piombare su un territorio come un UFO con un progetto. Il rischio è che venga rigettato anche se valido. Per diventare un referente culturale di un territorio o di comunità di persone bisogna prima vivere, conoscere, ascoltare il territorio e le persone. Capirne la bellezza e le attitudini. Poi pensare a quello che non c’è, provare a individuare alcuni bisogni specifici che tramite il teatro io sono in grado di colmare, lavorando molto sulla relazione tra soggetti interni e soggetti esterni. Il teatro riguarda la comunità e lavora sulla comunità. Per questo ne ho rispetto e mi dà moltissimo.

Per fare teatro ci vuole più coraggio o più amore?
La spinta prima è l’amore, senza dubbio. L’amore per l’umanità, per la sua complicata bellezza e dolorosa bruttezza. L’amore che ci spinge a volerla raccontare, percorrere, capire, analizzare e poi vivere assieme e per il pubblico. Al coraggio siamo costretti. Per continuare a tenere viva e sempre nuova la curiosità e la passione serve coraggio. Ma ha a che fare con la resistenza data dalla precarietà, dal sistema economico non adeguato, dalla poca considerazione che spesso l’arte ha in questo paese.

Qual è il sogno inconfessabile di Michele Di Giacomo?
Sono abbastanza bravo a confessarmi i sogni. E cerco anche di realizzarli. Ma in questo momento non credo di avere grandi sogni, solo desideri. Uno è quello di comprare una vecchia cascina immersa nel vedere e lì accogliere amici, vivere l’amore e cucinare per le persone a cui voglio bene e poi chiaramente ridere, parlare di arte, di sogni, di confessioni. Insomma, un luogo per dare spazio agli affetti.

Cosa si potrebbe fare, secondo te, per portare i giovani a teatro? 
Comincerei dal parlare del mondo in cui viviamo, dal raccontare il presente. Gli spettacoli contemporanei dovrebbero provare a raccontarci, nei contenuti, nelle storie, non solo nelle forme. Poi credo sia importante rendere le giovani generazioni partecipi di processi, non solo un target a cui mirare. Immaginare attività partecipative, relazionali. Un giovane dovrebbe entrare al teatro e vederlo come un luogo in cui può dare anche lui un suo contribuito. La forza del teatro è la relazione viva, non osservazione passiva, dovremmo cercare di ricordarlo anche noi che lo facciamo.

In cosa crede Michele di Giacomo?
Negli affetti. Nella comunità. Nel ruolo che ha il teatro per l’umanità. Nelle storie. Nel sacro. Nelle risate.

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