Delle quattro emozioni primarie, collera, tristezza, gioia e paura, quest’ultima è senza dubbio la più ancestrale.

Quando l’essere umano entra per la prima volta da solo nel mondo di relazione, nel momento del taglio del cordone ombelicale si materializza la madre di tutte le emozioni: la paura. La necessità di essere autonomi si realizza col primo respiro. Polmoni che non erano mai riempiti di aria debbono necessariamente espandersi. Tutto ciò è accompagnato da una reazione di stress e di dolore che porta al pianto. La natura ha comunque predisposto dei sistemi di difesa che permettono la liberazione nel sangue del neonato di sostanze atte a far percepire meno possibile lo stress del cambiamento. Pensate cosa voglia dire passare dalla situazione protetta intrauterina al mondo esterno con diversa temperatura, voci, sensazioni tattili e, ciliegina sulla torta, il taglio del cordone col primo respiro, una vera rivoluzione.

Non è un caso che quando abbiamo paura nella vita adulta la risposta istintiva è bloccare il respiro. Questa reazione spesso è estesa anche alle altre emozioni. Paura, respiro, polmoni ed emozioni si collocano su una retta di causa effetto.

Se proviamo a dare un significato simbolico al polmone e a tutto l’apparato respiratorio, osserviamo che esso è un organo di contatto come la pelle: è un mezzo di comunicazione con gli altri. La pelle determina i confini del nostro corpo. Attraverso la carezza, l’abbraccio ed il contatto fisico ci rapportiamo affettivamente. Ognuno ha dei suoi confini energetici di relazione che modernamente si racchiudono nella parola prossemica, la pelle entra in quella che viene denominata distanza intima compresa tra 0 e 45 centimetri. Abbiamo facoltà di decidere chi può entrare nella nostra personale distanza intima. Col respiro ed i polmoni il discorso è completamente diverso, le varie distanze sono annullate, siamo obbligati a respirare l’aria che è circolata nei polmoni degli altri, è un contatto obbligato.

Qui possiamo entrare in una riflessione ancora più profonda, la pelle in qualche modo può essere analogicamente rapportata al nostro Ego, mentre il respiro al nostro Sé, o meglio al Sé collettivo. Siamo onde di un unico mare, il genere umano, ed il respiro inconsciamente ce lo ricorda. Esso è vita, al tempo stesso biologica e di relazione. Respiriamo poco perché ci difendiamo dalla percezione delle nostre emozioni, abbiamo paura di entrare nella nostra casa interiore.

Quando nel corso della vita blocchiamo un’emozione per non essere feriti o per paura della sofferenza creiamo un nodo energetico che rimarrà lì a costituire un tassello della nostra gabbia. Se una emozione simile dovesse ripresentarsi, quel nodo si espanderà sempre più portandoci nel tempo a fare sempre gli stessi percorsi, gli stessi errori.

Cosa fare dunque? Avere il coraggio di entrare nella casa interiore e percepire la potenzialità del Sé che è il nostro dono di concepimento.

Siamo ogni giorno bombardati dal raggiungimento di traguardi, in corsa perpetua contro lo scorrere del tempo. Vogliamo ad ogni costo emergere, affermarci, scalare le vette della competizione. Tutto questo è vita esteriore al di fuori dalla casa del nostro Sé. È il perpetuarsi dell’affermarsi dell’Ego, di quella onda di individualità che non si riconosce come facente parte di un tutto indissolubile. Pensate se nell’economia del nostro corpo le cellule volessero far prevalere il loro Ego senza collaborare con le altre, senza rispettare il loro compito. Noi siamo cellule del genere umano collegate con gli altri non divisi. Abbiamo prodotto una generazione impazzita di cellule egoiche. Ora uno tsunami virale ci ha portato un impulso al cambiamento attraverso la paura. Il tempo si è fermato nelle nostre case, tante abitudini si sono dovute abbandonare, abbiamo il tempo di riflettere, ma non dobbiamo assolutamente identificarci con la paura.

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