Stable Gallery, Manhattan, 1964.
Arthur C. Danto, appena trentenne, futuro filosofo analitico e critico d’arte di fama mondiale, si trova in piedi davanti alle Brillo Box di Andy Warhol, scatole di detersivo leggermente ingrandite rispetto alle identiche in commercio. Di lì a qualche minuto, l’arte morirà.
Hegel l’aveva previsto. Durante le sue ultime lezioni di Estetica (1828-29), con discreto anticipo, il filosofo tedesco aveva profeticamente annunciato che l’arte sarebbe morta quando avrebbe avuto bisogno, per qualificarsi come tale – per presentarsi a noi come opera d’arte e non come scatola di detersivo – della filosofia.

Oltre un secolo dopo, Danto (1924-2013) si fa testimone della fine e la racconta: The Artworld 1964, The End of Art 1984, After the End of art 1997.
Ma facciamo un passo avanti. Siamo nel 1995 a Milano, Danto si trova in città per tenere una conferenza all’Accademia di Brera e Demetrio Paparoni, critico d’arte amico del filosofo, nonché suo editore in Italia dal ’92 con l’opera La destituzione filosofica dell’arte, lo raggiunge.
Insieme, decidono di passeggiare fino allo studio di Mimmo Paladino dove i tre si imbarcano in una vertiginosa discussione: la Storia – la fine della Storia – la fine dell’arte. Ma davvero l’arte è finita? Fortunatamente per noi, Paparoni registra la conversazione.

Oggi la pubblica nuovamente come il primo dei dialoghi che compongono la raccolta, introdotta da un suo saggio, Arte e PoststoriaConversazioni sulla fine dell’estetica e altro (Neri Pozza). Pop art, minimalismo, arte cinese, Fluxus, cinema, filosofia. Tutto s’intreccia.
La ragnatela che Paparoni e Danto tessono grazie all’aiuto di alcuni interlocutori d’eccezione, è irrorata di spunti potenzialmente infiniti. Talmente tanto da rischiare quasi di lasciare il lettore insoddisfatto. Ma l’arte, quindi, è finita?
Danto risponde: “il film finisce, ma la vita continua”. Con le Brillo Box, con la filosofia che si rende necessaria per definire perché scatole di detersivo in una galleria diventano un’opera d’arte, finisce l’arte nella sua cornice narrativa.

Pensiamo a Marx: la Storia, credeva il filosofo, in quanto narrazione di lotta di classe, sarebbe giunta alla fine una volta eliminati i contrasti sociali. Una volta conclusa la sua narrazione. Come in una favola.
Per Hegel, che intendeva la Storia come storia della libertà, una volta raggiunta una condizione di umanità libera, la Storia sarebbe finita.
La vita avrebbe continuato a prosperare, ma fuori dalla narrazione prestabilita. Aprendosi a infinite possibilità. Così l’arte.

La sua narrazione è proseguita in maniera sequenziale e lineare fino al catartico momento in cui è stato necessario chiederci, di fronte a delle opere: questa, è arte?
Da lì in poi, la scena artistica si è aperta ad un radicale pluralismo che ammetteva e ammette, fra le sue regole, solo la mancanza di regola. La narrazione è finita. L’arte del futuro è libera di andare dove vuole. L’arte diventa Post-storica.
Danto non è l’unico protagonista però di questi dialoghi. Sempre sotto l’egida registica di Paparoni, appariranno, in momenti diversi, anche un artista e un filosofo: Mimmo Paladino e Mario Perniola.

“2007, acrilico e terra su carta. 40×30 cm Mimmo Paladino

Paladino (1948) aveva già intrecciato il suo cammino artistico con Danto e con la filosofia. Sulla rivista Tema Celeste, diretta da Paparoni fino al 2000, si era confrontato con diversi testi filosofici attraverso il disegno.
Le parole gli suggerivano, gli sussurravano, le immagini che lo avrebbero legato, in un dialogo così finemente raffinato come quello delle forme, ai testi di filosofi come Emanuele Severino, Gianni Vattimo, James Hillman, Danto e molti altri.
Ma è la presenza di  Mario Perniola (1941-2018) ad incantarci. Tra i più importanti filosofi italiani del dopo-guerra, Perniola è tristemente scomparso recentemente, non suscitando forse l’eco mediatica che meritava. Leggiamo il suo epitaffio e capiamo subito la difficoltà di ricordarlo esaustivamente: Neque hic vivus, neque illic mortuus. Non qui vivo, non là morto. Mai fermo, mai uguale a se stesso, nemmeno nella morte.

Pensiamo a Transiti. Come si va dallo stesso allo stesso, geniale titolo di un suo saggio del 1985.
Estetologo, filosofo, scrittore, teorico dell’arte contemporanea, della letteratura e dei media, Perniola fu il figlio di due padri incredibilmente diversi: Luigi Payerson e Guy Debord. Il cattolico campione dell’esistenzialismo tedesco in Italia, che formò tra l’altro Umberto Eco, Gianni Vattimo e Sergio Givone, da una parte; l’eclettico filosofo, scrittore, cineasta, campione del ’68 e della controcultura – con la sua Internazionale Situazionista – dall’altra.
Due mondi in collisione, come la vita contro la morte. E Perniola si congederà, a modo suo, da entrambi (Debord, morto suicida con un colpo di pistola dritto al cuore, non lo perdonerà mai per questo). Ordinario di Estetica presso l’Università Tor Vergata di Roma, Perniola, irriverente, lucido, caustico, si è occupato molto di arte contemporanea.

I detrattori di Arte Espansa (Einaudi), provocatorio saggio del 2015 che indaga l’allargarsi dei criteri che definiscono l’arte tale, incolpano il filosofo di fare incautamente di tutta l’erba un fascio, gettando de-facto al vento tutta l’arte contemporanea.
A noi, non resta che addentrarci in queste conversazioni, origliarle. E se rimarremo insoddisfatti perché (ovviamente) la materia trattata è troppo vasta per esaurirsi in queste poche pagine, non resta che riscoprire questi autori. Siete curiosi di sapere cosa avranno da dirsi un critico, un artista, un filosofo analitico e un estetologo? Ottimo, perché l’ebook è già in commercio.

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