Nell’ultimo articolo ho parlato di Guido Morselli e della solitudine di chi intuisce concretamente il futuro. Leggere Non siamo eroi in questo senso per me è stata una gioia, l’ho divorato in poche ore il primo giorno d’uscita. Lo young adults di Sara Segantin è perfettamente in linea con gli young adults di realismo sociale editi oggi in Italia, tuttavia credo che rapportarsi a punti di vista di questo genere sia in un qualche modo un sollievo e un’occasione anche per noi trentenni e oltre. Un sollievo: Sara Segantin (ma anche il blog di Fridays For Future qui su Rewriters) dimostra come le ragazze e i ragazzi sensibili alla causa del cambiamento climatico siano oggi incredibilmente preparati.

Ho riso quando Alice, la protagonista, riporta il primo dibattito nel quale Mike, uno dei personaggi principali, si lamenta del fatto che la gente, con una crisi climatica in corso, non sappia ancora cos’è l’IPCC. Ho riso, perché Mike ha ragione. Se rapporto quel dialogo alla mia esperienza con la mia generazione e con le precedenti, sono decisamente più le volte che mi sono trovata a dover glossare certe sigle. Ancora, le cose che Alice dice nel discorso alla prima manifestazione sono davvero discusse dalla ricerca scientifica e ho apprezzato tantissimo l’allusione alle pandemie (“Presto acqua e cibo potrebbero scarseggiare anche nei paesi più ricchi e virus sconosciuti potrebbero diffondersi causando vere e proprie pandemie”).

Questo, chi è preparato sull’argomento già lo sa ed esserne consapevoli in alcuni casi (qua parlo per esperienza) ha voluto dire soprattutto farsi trovare psicologicamente preparati quando è iniziata la crisi del covid-19. Che Sara Segantin lo metta in bocca al suo personaggio principale mi rallegra perché negli ultimi tempi quando, peccando di troppa sincerità, mi sono trovata io a dire che una pandemia me l’aspettavo ho avuto come la sensazione che l’affermazione fosse presa per una vanteria e che il sospetto che possano seguirne altre sia percepito come lanciare una iattura. Essere preparati vuol dire invece anche affrontare le situazioni con meno fragilità e in questo senso Non siamo eroi solleva tutta una serie di questioni che vale la pena approfondire.

Il ritornello degli attivisti oggi sembra essere la canzone di Scar nel Re Leone: Be prepared. Eppure quanti di noi sono preparati a cambiare le proprie abitudini? Quanti sanno perché certe buone pratiche sono importanti? Quanti si aspettavano una pandemia? Trovo molto interessante il passaggio in cui Alice torna a casa e rivoluziona le piccole abitudini dei suoi amabili genitori che, presi dal lavoro e dallo stress, le rimproverano dolcemente di pretendere troppo. Ecco. Credo che qua ci sia un ottimo spunto per parlare di quanto duro sia comunicare un messaggio come Be prepared in una società costruita in difesa della sicurezza routinaria. Non c’è niente di male e credo che sia un legittimo desiderio umano volere una vita sicura, prospera, dove l’occorrente per vivere sia sempre disponibile e si evitino i grandi traumi personali o le grandi catastrofi. Il problema è quando le piccole sicurezze della (fu?) piccola borghesia, proiettate in un eterno presente routinario, sono utilizzate da scudo psicologico per rallentare/portare avanti svogliatamente/ non accettare la necessità del cambiamento.

Bisogna prendere consapevolezza che in futuro l’occorrente per vivere potrebbe non essere così disponibile: pratiche oggi eccezionali dovrebbero diventare abituali, equilibri socio-economici oggi dati per scontato potrebbero non esserlo o altre capacità rispetto a quelle promosse in una società con settore terziario dominante potrebbero dimostrarsi essenziali. Mi ha fatto molto ridere, perché di nuovo condivido, quando il piccolo Cutter, che viene dall’Alaska ed è abituato a pescare in una maniera in continuità con la tradizione, dice ad Alice: “Ma da dove vieni tu è normale che la gente della tua età non sappia fare niente?”. Se una certa praticità manca oggigiorno è perché il genocidio culturale di cui parlava Pasolini ha fatto credere alla piccola borghesia che ne è scaturita che il genere umano può vivere staccato dalla natura. Invece noi siamo nella natura e non è ignorarla e andare avanti ciecamente con la propria routine che migliorerà le cose.

I giovani d’oggi, credo, sanno recepire meglio di altre generazioni il messaggio be prepared perché si sono affacciati al mondo sociale quando la situazione era già precaria, saranno probabilmente adulti quando la crisi raggiungerà l’apice e hanno conosciuto abbastanza l’estero da non cadere nella tentazione della fuga ideologica com’è stato per la mia generazione – è impossibile fuggire quando i presupposti socio-economici che reggono l’occidente sono gli stessi e il pianeta è lo stesso. La sensibilizzazione deve essere forte soprattutto là dove ce n’è bisogno, come in Italia.

C’è un momento in cui Alice afferma che: “era da una vita che in Italia, in Europa non c’era una causa comune per cui lottare”. Questo mi ha fatto tornare indietro ai miei diciannove anni, l’età di Alice, e ai miei ventitré anni, l’età dell’autrice. A metà anni Duemila le cause c’erano eccome, peraltro oggi non ancora risolte: le lotte per i diritti LGBT+, le proteste per le pari opportunità, le giuste accuse contro la malagestione dell’immigrazione. C’era già tutto. Mi sono chiesta allora che cos’è che può dare l’idea a una ragazza come Alice/Sara di aver risvegliato un certo sentimento prima assopito. Ho ipotizzato una possibile risposta: la consapevolezza che unire è meglio di dividere. Questo libro termina con una crisi di movimento rientrata, paradossale che sia uscito quando al governo sta accadendo l’opposto. Gli attivisti di Non siamo eroi cercano un dialogo con il mondo esterno perché la causa è troppo importante per rimanere nella bocca dei soliti già consci e sensibilizzati. Gli animatori delle cause della mia giovinezza si sono troppo spesso stabilizzati in una routine di eventi a cui partecipano le solite facce note, e sarebbe bello se questi nuovi movimenti immettessero nuova linfa nei vecchi in termini di comunicazione. Anche perché, e Karima nel libro lo dice a chiare lettere, la questione climatica esaspera le altre già esistenti. La povertà, la gestione delle migrazioni, le discriminazioni, la questione femminile: è tutto amplificato quando il non umano diviene nocivo e imprevedibile. I dati sull’occupazione femminile in Italia durante la pandemia parlano chiaro al riguardo.

Sara Segantin solleva anche il problema di come portare avanti un discorso ecologista che trascenda la politica e, soprattutto, il concetto di capitalismo. È molto interessante lo scontro ideologico fra l’approccio anticapitalista di Paolo e quello localista di Mike. Per conto mio sono entrambi giusti ed è impossibile non toccare la politica partitica quando si parla di cambiamento climatico. Esso stesso è causato da presupposti economici i cui interessi hanno la propria rappresentanza in Parlamento.

Quello che colpisce positivamente della visione di Sara Segantin è l’approccio politico così lontano dal dogmatismo di tifoseria che allontana dalle cause importanti. E non può che farmi felice che una ragazza di ventitré anni porti avanti un modo di approcciarsi alla vita civile sano e continuamente vagliato dal proprio senso critico. Quando Alice dice che non sa se vuole continuare a essere attivista, ma magari affronterà la questione clima da scienziata o da esperta di comunicazione, mi verrebbe da entrare nel libro e dirle, in maniera simile a come fa Mike, che anche quello è attivismo. Io ad esempio, che non ho il carattere per candidarmi, ho scelto l’attivismo creativo-letterario.  

Le ultime parole le spendo per Teo perché la riconciliazione con l’amico scettico per me, ultratrentenne, è una bella favola. La mia generazione è passata attraverso l’inasprirsi di tutto: la politica, la comunicazione, la socialità. Ho rotto amicizie (poche) per incomprensioni politiche date, come avviene ad Alice, dallo scarto comunicativo con chi resta fermo nella propria vantata ignoranza e diffidente nei confronti degli studi altrui – e chiude l’audio. Come comunicare allora con chi non ascolta? Non fa mai piacere rendersi conto della distanza che si è creata con persone alle quali si vuole bene e non sempre è possibile un lieto fine. Talvolta il lieto fine è differito, talvolta non vi è affatto. Beh, almeno in Non siamo eroi la vicenda serve da modello positivo. Unire, non dividere, ancora.

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