Dopo tante città, tante storie di esseri umani che si muovono in ambienti urbani, tante storie di problemi sociali o ritratti storici, il pregio di questo La foglia di fico (nella cinquina del Premio Campiello 2022) è di aver riportato il mondo vegetale nella letteratura italiana.

Come in quel momento geniale di Lazzaro Felice di Alice Rohrwacher quando Lazzaro mostra agli altri – accampati ai margini di una ferrovia – che sono circondati da piante edibili e le chiama per nome, così anche Antonio Pascale (che nella vita ha fatto l’autore di teatro e radio ma anche l’ispettore del Ministero alle Politiche Agricole) ci presenta una serie di piante e di persone che hanno fatto parte della sua vita.

Le vicende degli umani si intrecciano spontaneamente a quelle dei vegetali, come se il distacco dal mondo naturale (il boom, la mutazione antropologica pasoliniana) non fosse ma avvenuto.

O almeno, Pascale non lo sente e questo rende il suo punto di vista particolarissimo. La foglia di fico sembra quasi una raccolta ottocentesca (detto da me, è un complimento). Più che alle Georgiche – un paragone un po’ improprio ma sicuramente fatto a fin di bene, cioè per lodare l’autore paragonandolo a un poeta/monumento – questo libello mi fa pensare a quando ho affrontato per la prima volta in inglese l’inizio di After London di Richard Jefferies e a quante parole ho dovuto cercare sul dizionario perché l’autore vittoriano sfoggia tutta la sua competenza botanica, quella che nell’inglese che parlo non utilizzo – non utilizziamo. Intanto però ti catapulta nella location dell’azione. Erano tempi in cui faceva meno strano che uno scrittore ne sapesse anche di piante.

Tornando a Pascale, anche la grafica interna, le pagine ingiallite scritte a china con le illustrazioni, mi ricorda un’allusione a quel tipo di approccio alla natura in narrativa.

Certo, sia chiaro, se cercate un’opera che in qualche modo faccia parte della letteratura dell’Antropocene, non la troverete qui. La foglia di fico non è né cli-fi né altro e l’unica cosa che rimanda alle questioni del presente è forse il fatto che qualche anno fa un libro così avrebbe faticato – io credo – ad essere nella cinquina del Campiello, forse non se ne sarebbe capita la necessità.

Rispetto alla narrativa dell’Antropocene, Pascale narra storie di esseri umani come le si sono sempre narrate, anche gli echi proustiani (“ogni volta che rievochiamo un ricordo lo tiriamo fuori dall’ombra, dunque cerchiamo di ricostruirlo quindi lo modifichiamo”) sono pop, non si sperimenta con l’immaginario per suscitare consapevolezza politica. Semplicemente l’autore non viene da quella formazione – non è questo che gli interessa. Vuole invece – e lo fa con mano leggera (in senso calviniano) – raccontare ricordi, gocce di memoria in cui si intersecano esseri umani e piante.

Somiglia più alla raccolta di liriche cinesi che piaceva tanto a Pavese che a – che so – l’ultimo capitolo di The Bone Clocks. Somiglia di più a certa nature writing statunitense degli anni Novanta, parallela all’inizio dell’ecocritica. E questo forse la dice lunga su come, per l’Italia, il ritorno a un discorso sul rapporto fra umano e non umano sia allo stadio iniziale.

Ecco, una cosa alla quale a mio gusto personale avrei badato è il vecchio monito: show, don’t tell. Ci sono molti discorsi sull’esistenza, se ne parla più che mostrare l’esistenziale. Per esempio nel primo racconto si fa un gran parlare di Kafka e a me sarebbe piaciuto vederlo, questo Kafka, vedere una situazione kafkiana (o buzzatiana) che rappresenti quelle “cellule che non vogliono morire né adattarsi” come metafora del conflitto fra comunità e singolo, non solo sentirne parlare da un triangolo amoroso.

Avrei voluto vedere un racconto sulle anime in pena e i faggi, pure. Va vicino a quello che sto dicendo il momento in cui il nonno guarda lo sfarfallio della televisione e lo paragona alla morte (“Prima si vede tanto e all’improvviso solo puntini”), o la visione dell’aranceto sempre del nonno che scappa dopo l’8 settembre o l’olivo del museo che canta e commuove i contadini.

Immagini felici, esperienze dirette per il lettore (e non solo per l’autore che poi le riporta) che ripagano tutto il parlare della vita e della morte che a me ha fatto reagire un po’ come Sara (una delle protagoniste del primo capitolo) di fronte ai cantautori.

Ma questa sono io, e imputo questo bisogno un po’ frustrato al fatto che vorrei sul mercato italiano libri che, oltre all’aprire nuove prospettive che includano il non umano (Pascale lo fa), ragionino di più sulla forma.

La foglia di fico invece è una godibile raccolta realista e naturalista che prende talvolta tinte da chiacchiera con gli amici o da email (i PS a fondo capitolo) dove si ama, si vive e si muore tutti assieme.

E’ Nature writing, o ascolto della natura come è stato detto. L’autore conosce ma soprattutto ama quel che descrive: la nebbia, i faggi, le piante grasse, i tigli… è con loro e con loro è stata la sua vita. Vi sembra poco per una letteratura piena di smog e appartamenti perché molti di coloro che scrivono non conoscono altro? A me no. Mi sembra bello.

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