Il 31 ottobre 1980 due giovani vengono trovati morti, mano nella mano, sotto un grande pino a Giarre, in provincia di Catania. Sono il venticinquenne Giorgio Agatino Giammona e il suo zito (fidanzato) Antonio Galatola.

Giorgio Agatino Giammona e Antonio Galatola, gli ziti di Giarre

Giorgio è figlio di una famiglia benestante e in vista ed già chiacchieratissimo in paese per la sua omosessualità: sorpreso a fare sesso in auto con uomini, viene indirizzato dal padre verso cure psichiatriche pur di non ammettere la sua omosessualità. Antonio, invece, proviene da una famiglia di umili origini.

Io nel 1980 ho 15 anni. Vivo a Roma ed inizio il liceo, terrorizzato dalla mia omosessualità e dal fatto che il mondo la scopra. Quel delitto, del cui annuncio ho un ricordo molto nidito, per me acquisisce un profilo chiaro: parla di me e del mio destino. Anche io morirò ucciso, o mi ucciderò. Non c’è scampo per un omosessuale.

Sono passati molti anni e per fortuna sono uscito dalla prigione del pensiero negativo e dell’omofobia interiorizzata. Però leggere del delitto di Giarre mi dà ancora un brivido risvegliato da qualche memoria sopita ma che parla a qualche dimensione della mia coscienza.

La morte dei due ragazzi è avvolta da incertezza: suicidio? Omicidio oppure omocidio? Il paese ha fretta di rimuovere il ricordo. Nelle persone LGBT+, a livello locale e nazionale, con supporto soprattutto dai radicali, invece, emerge una nuova consapevolezza che accelera la costituzione del primo nucleo di Arcigay e la costituzione del circolo catanese del Fuori!, una delle prime associazioni del movimento LGBT+, nata a Torino qualche anno prima.

La differenza sociale tra i due, l’abominio e la vergogna che permeavano la visione del tempo dell’omosessualità, a Giarre, in Sicilia, in Italia, il desiderio di rimuovere quell’amore proibito, hanno fatto sì che soluzione al delitto non fu trovata.

Inizialmente spuntò la confessione di un ragazzo, Francesco Messina, tredicenne, che però quasi subito ritratta dicendo di essere stato spinto dai carabinieri. Poi, piuttosto velocemente, tutto viene coperto dall’oblio e catalogato nella categoria degli insoluti.

Dopo 42 anni, il giornalista Francesco Lepore pubblica un articolo per Linkiesta per il quarantennale dell’omicidio. L’articolo riscuote interesse e ne scaturisce la richiesta di scrivere un dossier più approfondito sulla vicenda degli ziti di Giarre.

Francesco Lepore in una foto di Roger Nicotera

Il risultato finale è Il delitto di Giarre (Rizzoli) con cui Francesco Lepore colma un vuoto imbarazzante sulla vicenda che, sino ad oggi, era stata trattata solo in saggi, articoli inerenti la storia del movimento LGBT+, come se l’aspetto criminale fosse in secondo piano. Lepore, invece, va a fondo fino a risolvere il giallo dell’omocidio, la cui scoperta lasciamo ai lettori del libro che, vi assicuro, si legge tutto d’un fiato.

La copertina del libro/inchiesta Il delitto di Giarre di Francesco Lepore

Paolo Patané, già presidente Arcigay e ora incaricato di varie responsabilità per il patrimonio culturale, archeologico e artistico siciliani (in primis Direttore del Coordinamento dei Comuni Unesco in Sicilia), era adolescente a Giarre in quegli anni. A lui abbiamo chiesto di andare indietro a quell’autunno del 1980 e di rievocare l’atmosfera che si respirava:

Paolo Patané

Di quella Giarre in quel periodo ho un ricordo che oserei definire plumbeo. Era in effetti, il 1980, un anno complicato: la Guerra fredda, il terrorismo e la mafia, la strage di Ustica e quella di Bologna, l’assassinio di Mattarella ed il terremoto in Irpinia. Una fase terribile che nonostante i miei 13 anni avvertivo seriamente. Eppure a Giarre si viveva in una sorta di bolla, come se tutto fosse esterno e lontano: una cittadina senza la sua giusta dimensione, troppo piccola per essere città e troppo grande per essere paese. Si avvertiva come un senso di inferiorità rispetto a Taormina a nord e ad Acireale a sud: contesti con storie ed identità antiche e forti.

A Giarre si studiava (era ed è piena di scuole) e si lavorava (era, ed oggi lo è molto meno, piena di negozi e di attività commerciali): c’erano ben due cinema ed una storica libreria in centro. Molte gioiellerie ma nessun pub e pochissimi bar. Era ricca per le attività commerciali e per una serie di imprese agricole, nate soprattutto dalla fine dell’800, ma il potere e la ricchezza di una certa borghesia agricola, commerciale e professionale non si erano tradotti in una vera evoluzione culturale diffusa. Anzi.
Ho il ricordo di un contesto ammalato di perbenismo ossessivo e di un provincialismo con poca percezione del mondo. Certo non era l’unico luogo in quell’Italia di 42 anni fa ad essere così, questo è chiaro, ma la cultura dell’apparenza e dell’onorabilità era molto forte e certo favorì la cappa di silenzio che avvolse rapidamente l’assassinio di Giorgio e Toni e soprattutto la scandalosa conduzione delle indagini decisa dal Pretore Assennato. Il senso del divario sociale era forte e importante, perché molto forte era la logica di classe.

Le differenze sociali tra Giorgio e Toni erano una delle ragioni di “scandalo”: anche se fossero stati due amici eterosessuali della stessa età (ma erano una coppia gay con ben dieci anni di differenza tra l’uno e l’altro) il loro legame sarebbe stato giudicato certamente inopportuno. Esisteva tuttavia un agguerrito e vivace movimento di giarresi, donne e di attivisti per la legalità, che a Giarre riusciva a trasportare i grandi sussulti civici degli anni ’70 ed ’80. Ripensarli oggi in quel contesto così finto e affettato me li fa apparire ancora più coraggiosi e visionari! Molti di quei limiti ambientali, nel presente, devono confrontarsi con una realtà significativamente impoverita rispetto ad allora, eppure a Giarre qualcosa è mutato. Il “Delitto di Giarre” di Francesco Lepore non è solo una ricostruzione giornalistica ma lo specchio per una possibile elaborazione collettiva rispetto ad una vicenda terribile e crudele e rispetto all’identità di contesto. L’aver rimosso l’assassinio di Giorgio e Toni interruppe la crescita civica di Giarre: oggi sento che può riprendere a crescere.”

Ho incontrato l’autore, Francesco Lepore, a cui ho rivolto alcune domande per esplorare alcuni aspetti della sua incredibile ricerca.

Francesco, come è nata l’idea di ricostruire con meticolosità i fatti e il background legati al delitto di Giarre?

Per il più banale (e per me più sorprendente) dei motivi. Avevo scritto per Linkiesta un articolo in occasione del 40° anniversario (31 ottobre 2020) del ritrovamento dei corpi di Giorgio e Toni, celebrato a Giarre con l’unione civile di Massimo Milani e Gino Campanella, due dei soci fondatori del primitivo nucleo di Arcigay. Alcuni giorni dopo ecco arrivare l’inaspettata richiesta del responsabile saggistica di Rizzoli, che mi chiedeva di sviluppare quell’articolo in un libro. Ti lascio immaginare la felicità e la soddisfazione per una proposta che ogni giornalista desidererebbe ricevere…

Ci puoi descrivere il contesto famigliare e sociale che ha generato la vicenda di Giorgio e Toni?

Il contesto era quello di una popolosa cittadina della Sicilia di 42 anni fa. Giorgio Agatino Giammona, che all’epoca aveva 25 anni, apparteneva a un’agiata e rispettata famiglia della media borghesia giarrese. Eppure, nell’arco della sua breve esistenza aveva dovuto mendicare costantemente l’amore da quei genitori che lo avevano messo in collegio ancora bambino. La madre lo aveva dato alla luce quando era già separata di fatto dal marito, Giuseppe Agatino, e il padre effettivo, Salvatore Giammona, non gli avrebbe mai riconosciuto il cognome. Quella di Toni, allora quindicenne, era invece una famiglia di umili condizioni (il papà era un venditore ambulante) ma generosissima e ospitale. Presso i Galatola Giorgio trovò quell’affetto familiare, a lungo negatogli. E trovò l’amore della sua vita: Toni.

Sei riuscito a intervistare rappresentanti della famiglia. Che idea ti sei fatto del ruolo della famiglia? Come sono evolute nel tempo le loro posizioni e sensibilità?

Ho potuto unicamente intervistare Enza Galatola e Rosita Galatola, rispettivamente sorella e nipote di Toni (quasi coetanee), le uniche disposte a parlarmi. Sicuramente le famiglie hanno avuto un ruolo determinante nella maturazione ed esecuzione del delitto. Ma con modalità totalmente contrapposte. Entrambe preferirono non vedere il rapporto tra i due ragazzi, che pure in paese erano conosciuti come gli ziti (fidanzati in siciliano). Nel caso dei Giammona si arrivò a negare la manifesta omosessualità di Giorgio, insultato a Giarre con l’epiteto di “puppu cu bullu” (frocio patentato in dialetto catanese) dopo che i carabinieri lo avevano sorpreso più volte a fare sesso in auto con ragazzi. Il papà lo aveva addirittura mandato a visita psichiatrica, preferendo far passare il figlio come disagiato mentale anziché accettare la realtà. Non avvenne lo stesso con Toni, anche se ancora oggi Enza e Rosita continuano a ripetere che il fratello o nipote non era gay “perché aveva una fidanzatina e perché, comunque, ce ne saremmo accorte”. Soprattutto nel loro caso, pur dissentendo da una tale semplicistica interpretazione, non me la sento però di giudicare: la ferita, causata da quella morte, è per loro ancora aperta e sanguinante.

Sono passati 40 anni dal delitto di Giarre. Come è evoluta la sensibilità sui temi Lgbt nelle zone del delitto? E nel Paese nel suo complesso?

Nel modo che è sotto gli occhi di tutte e tutti. Il cambiamento di sensibilità sui temi Lgbt nell’entroterra etneo è lo stesso che si è registrato negli anni e continua fortunatamente a registrarsi in tutto il Paese al pari di quello che tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso era il comune sentire al riguardo a livello locale e nazionale. Ovviamente con più ampie e innegabili difficoltà in una realtà di provincia quale quella giarrese, dove, fino a poco prima dell’uscita del libro (i motivi però sono di molteplice natura), si tendeva a rimuovere dalla memoria collettiva quel drammatico episodio d’amore e di morte. Sotto talo rispetto sono, a mio parere, esplicative e illuminanti le parole del compianto Enzo Francone, storico attivista del FUORI! e protagonista della tre giorni di manifestazioni tra Catania e Giarre, che all’epoca disse: “La drammaticità del fatto è legata a quella della piccola cittadina di provincia, che è in questo caso Giarre, ma potrebbe essere Cuneo, Chieti o altri centri relativamente modesti rispetto alle grandi metropoli. Se certe difficoltà, che sono poi eguali indipendentemente dal posto in cui ci si trova, creano dei problemi di vuoto, in un piccolo centro la situazione diventa terrificante. Essere coscientemente e liberamente omosessuali a Giarre è difficile, poiché la pressione che avviene in un paese dove tutti si conoscono è quella di uniformarci alla normalità”.

A seguito del clamore scaturito dal delitto, si costituì il circolo catanese del FUORI. Quali le rivendicazioni principali scaturite dal delitto di Giarre?

In realtà il FUORI! di Catania ebbe vita effimera. Bisogna piuttosto ricordare che il 9 dicembre 1980, a poco più d’un mese dal delitto, nacque a Palermo su proposta di don Marco Bisceglia quel primo Circolo di Cultura omossessuale dell’Arci, che avrebbe assunto, il 22 maggio 1981, il nome Arci-Gay (trattino poi scomparso con la nazionalizzazione e centralizzazione dell’associazione, operata nel 1985 grazie soprattutto all’intuito e alla fermezza di Franco Grillini). Circolo che, è sempre bene ribadirlo, non nacque affatto “sull’onda emotiva dei fatti di Giarre”, come ancora si continua erroneamente a scrivere e a dire. Ma da quei fatti ricevette un’indubbia spinta propulsiva e acceleratrice il percorso già avviato nella primavera del 1980 da Marco Bisceglia, alcuni rappresentanti del FUORI! di Palermo e universitari della sinistra extraparlamentare come lo straordinario Enzo Scimonelli.

Circa invece le istanze rivendicative scaturite nell’immediato dalla morte di Giorgio e Toni esse possono essere riassunte nelle parole che Piero Montana, cofondatore del FUORI! di Palermo, disse nel novembre 1980 a Petrucci de L’Europeo: “Giorgio e Toni hanno avuto il coraggio di proporre, morendo, l’omosessualità come richiesta e ricerca d’amore. Non vogliamo più sentirci in colpa. Abbiamo fame di sentimenti, di felicità, di gioia”. Riconoscimento, dunque, della dignità e dei diritti della persona LGBT+, come diremmo oggi, in quanto tale e in quanto parte di una coppia nonché della piaga dell’omo-lesbo-bi-transfobia da prevenire e contrastare. E di fatto con la morte degli “ziti” di Giarre e la susseguente ondata di protesta l’opinione pubblica fu non solo scossa dal fatto di sangue, ma portata a riconoscere l’esistenza dell’effettiva discriminazione verso le persone LGBT+.

A distanza di 40 anni, che idea di sei fatto del delitto? Cosa ha ucciso Giorgio e Toni?

Non voglio svelare nulla a lettori e lettrici. Ma il libro permette finalmente di conoscere, a oltre 40 anni di distanza da quella tragica morte, i nomi dei due assassini (entrambi deceduti da tempo). Sono state Enza e Rosita Galatola a rivelarmeli per sete di giustizia e per senso quasi di liberazione. Si trattò di un delitto d’onore – lo si può definire tale senza enfasi alcuna – maturato in ambito familiare (con estraneità dei Galatola in senso stretto) per lavare nel sangue l’onta dell’inaccettabile omosessualità di Giorgio e Toni. In maniera più ampia si può dire che essi morirono di pregiudizio. Pregiudizio radicato nella comunità giarrese, da cui oggi si va lentamente liberando in un processo catartico della memoria e di ammissione di collettive responsabilità nella morte di due ragazzi che si amavano: Giorgio e Toni.

Sentivo oggi alla radio la canzone di Franco Battiato Tutto l’universo obbedisce all’amore. Per gli ziti di Giarre ciò che ha guidato la mano del carnefice è stato, invece, l’obbligo del silenzio! Non doveva esistere una storia come la loro! Non dovevano continuare a camminare per le strade di Giarre testimoniando il loro amore!

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