Qualche giorno fa, il NY Times ha pubblicato una bella intervista con Paul McCartney. L’occasione è stata l’uscita di un nuovo album di Macca, III (Capitol Records), il terzo di una serie di Lp diversi dagli altri, registrati a casa in formato one man band, che arriva 50 anni dopo il primo (quello uscito stizzosamente qualche giorno prima di Let It Be), e 40 anni dopo McCartney II. Uscirà il 18 dicembre e quindi nulla da dire sull’album, ma di spunti nell’intervista ce ne sono molti. 

Principale dei quali, come sempre da ormai 40 anni, le sue riflessioni sul rapporto con John. Della morte, o meglio dell’assassinio di quello che è stato il suo partner in crime, cambiando non solo la storia della musica ma anche quella della cultura giovanile in tutto il mondo, Paul ne ha parlato spesso. I Beatles, discograficamente almeno, sono durati dieci anni, quella decade di cambiamenti pazzeschi che son stati gli anni ’60. Quando i quattro si separano, nel 1970, il futuro è incerto perché il rock è ancora troppo giovane, non ha il senso di tridimensionalità che abbiamo noi oggi, 50 anni dopo. Sappiamo che “spero di morire prima di diventare vecchio”… non è andata così (Pete Townshend e Roger Daltrey suonano ancora, pure abbastanza arzilli). Anzi, visto l’amore in particolare di McCartney per la musica ante-guerra, si potrebbe dire “spero di continuare a fare musica anche da vecchio“, persino oltre when I’m 64 (sono ormai 78), ed è quello che han fatto tutti gli artisti che non si sono auto-distrutti, o nella vita dei quali è entrato in gioco un altro destino, come per John.

Ma ora che abbiamo il privilegio di guardare indietro, quei dieci anni pazzeschi sono pochi, in confronto a tutti quelli venuti dopo: nei successivi 50 Paul ha continuato a fare musica, a volte eccellente e comunque sempre di successo, nei successivi 10 anche John ha pubblicato dischi fondamentali, ma soprattutto la sua morte prematura gli ha creato intorno un alone mitologico, amplificando i messaggi di quella seconda decade, gli anni ’70.

Al di là del lato artistico, John in quegli anni è passato attraverso una profonda trasformazione esistenziale, lasciandosi alle spalle quel bullo prepotente e misogino a cui lui stesso accennava nelle canzoni (da Getting Better: “Ero solito esser crudele con la mia donna/ la picchiavo e la tenevo lontana dalle cose che amava/ma ora sta andando molto meglio…”.) e mutando da uomo violento in uno che sceglie la pace, da diffondere planetariamente. John Lennon non è stato un santo, come Imagine può far pensare. All’inizio era un solitario, un ribelle, un violento, e probabilmente i fan lo amavano proprio per questa sfacciataggine, per questo alone pericoloso. Era il lato meno sentimentale, più abrasivo dei Beatles, e l’integrazione fra due anime così diverse è stata la loro forza.

Photo by United Press International (commons.wikimedia.org)

Riguardando indietro, Paul nell’intervista parla di come, chiuso in casa dal Covid, ha capito che poteva fare “quel che diavolo volessi“, un album nuovo, tanto per dire. Parla di come abbia spesso attinto ai suoi sogni per scrivere (Yesterday, Let It Be), di come si ricordi i sogni, e ne cita uno a sfondo sessuale della notte prima. Dice che era lui, e lui solo, a dover chiamare gli altri, “ragazzi, è ora di fare un disco nuovo”. Di quei soli dieci anni con i Beatles dice che sono un po’ come le memorie giovanili che abbiamo tutti, e l’unica cosa per cui ci rimane male è che ormai tutte le storie che racconta, a cena o nelle interviste, le conoscono già tutti. Tranne quella che sui gradini degli Abbey Road Studios, nella pausa delle foto per la copertina di Abbey Road, cercava di convincere John a fare la dichiarazione delle tasse per la quale insisteva il commercialista. E alla fatidica, irrinunciabile domanda sul suo rapporto con l’amico, dice che si rifiuta di ripensare a quella notte dell’8 dicembre, troppo dolorosa. E che John spesso gli chiedeva “che penseranno di me quando sarò morto? Sarò ricordato?”. “John, ascoltami”, lo rassicurava, “Sarai ricordato così tanto! Sei così grande che non c’è modo che tutto questo svanisca”. Non era solo una rassicurazione. E ricordando il loro incontro, e di come avessero fatto il provino a baby George sul secondo piano di un bus inglese, ci siano volute “un sacco di coincidenze positive per far sì che esistessero i Beatles”.
E, alla fine, confessa – ma questa non è una novità – che non abbia la minima idea di come gli vengano così tante e così belle melodie: “c’è qualcosa nella mia abilità di scrivere musica di cui non credo di essere responsabile. Mi viene meglio che ad altra gente. Tutto qui. Sono un uomo fortunato”.

C’è così tanto, nella storia dei Beatles e nel come la nostra vita si è intrecciata con la loro, che sembra davvero una never ending story. Drammatica, entusiasmante, tragica, swingin’, felice, imprevedibile, creativa, piena di livore e incomprensioni, ma anche di… ‘i veri amici sono per sempre’. Più la ricordiamo e la analizziamo e più c’è da scoprire e riflettere, in fondo è una grande metafora della nostra generazione.  

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